Ho scritto molto - nei libri già pubblicati da importanti Case Editrici - e continuerò a scrivere sull'Arte, rintracciando il nesso spirituale che la realizza come profonda riflessione dell'esperienza umana. Negli anni ho anche messo la mia penna a disposizione degli artisti, esprimendo con chiarezza meditativa i loro messaggi.

Nella crisi attuale, l'Arte deve assumersi la responsabilità di approfondirsi, divenendo il veicolo creativo ed esemplare del nuovo; per questo diviene ancor più rilevante la sua capacità di comunicazione. In tale prospettiva, anche la scrittura sull'Arte assume un nuovo significato: cessando d'essere un'esercitazione di mestiere, deve saper esprimere la vitalità intuitiva che può raggiungere il cuore delle persone, per resuscitarlo col sentore di ciò che è vero.

In questo sito intendo donare visibilità agli artisti che hanno deciso di avvalersi della mia scrittura per presentare il loro lavoro. Inoltre presento le mie meditazioni su importanti artisti storici.


SATVAT E' ARTISTA VISIVO E SCRITTORE

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domenica 11 ottobre 2015

Miria Mesiano



Miria Mesiano - Serenità - acrilico su tela

   Nelle nobili intenzioni dell’arte, la pittura di Miria Mesiano è un itinerario intensamente partecipato alla scoperta del Paradiso Terrestre, inteso come uno stato ancestrale che pulsa dei misteri confortanti della vita. Il conforto che l’arte può donare deriva dall’espressione di un atavico sentimento di unione, che manifesta il riflesso spirituale di una realtà originaria e armoniosa che il mondo quotidiano dimentica. L’artista invece si adopera a ricordare, esercitando il suo talento per risalire la corrente ingannevole del tempo fino al momento folgorante dell’Essere che tutto riunifica nell’eterno presente. Seppure i mezzi del pittore, la forma il colore, possano sembrare esigui, sono propriamente quelli che intessono la Creazione. E la pittura di questa artista mostra splendidamente la tessitura di un arazzo che cura e ritrova i disegni originali di trama e ordito, di colore e segno, compiendosi come rivelazione. Sulla vivace trama cromatica, il suo pennello ricama linee quasi calligrafiche che seguono intuitivamente le curve labirintiche della vita, alla ricerca del centro essenziale da cui si può comprendere il senso segreto dell’intero tracciato. Da esperta tessitrice, la pittrice riannoda i fili interrotti dalla disgregazione mondana, ma soprattutto, con sapienza rabdomante, segue l’istinto ancestrale, femminile, delle tinture, e da ciò coglie amorevolmente i simboli della forma. Infatti quella di Miria Mesiano è, in primis, una pittura spontanea di aure cromatiche.
   Le aure del colore sono la grande scoperta esoterica dei pittori moderni, che le intesero come trascendenza dalla prosaicità della forma. Però ciò può illudere col sogno di una radicale astrazione verso l’Assoluto; ma ignorando la forma, e il potere misterico in essa contenuto, si arriva a collassare nella teorizzazione impotente. Invece Miria Mesiano, in virtù di una spiccata sensitività affettiva, non incorre in tale abbaglio. L’artista crea perché ama, e rispecchia il suo amore in un oggetto misterioso, intimamente concepito, che dato alla luce può manifestare un mondo nuovo dell’immaginazione e dell’Essere, essendo pregno di ispirazione e significato. Questa pittrice partorisce creativamente le aure brillanti destinate ad incarnare un mondo pulsante di forme, che è dettato e mosso dal sentimento. Perciò i suoi colori non hanno l’ansia di sfuggire utopicamente alla materialità, e al suo intrinseco dolore, piuttosto sono la Via per formare e quindi conoscere l’oggetto occulto dell’amore. Ogni forma, concepita nel colore, porta una rinascita dell’amore, e questo si sprigiona cercando consonanze, trascendendo l’oggetto stesso nella tensione a rendersi universale. Così, nell’accadere pittorico, l’artista procede riconoscendo man mano la natura luminosa di se stessa e del mondo, e in ciò il dolore della separazione scompare. Per questo l’uso del colore di Miria Mesiano manifesta tale intima coerenza, risultando tattilmente gravitato in se stesso per l’impulso generativo. La grande vivacità cromatica non tende a superare la Natura, ma la abbraccia entusiasticamente testimoniando le sue trasformazioni, facendosi cogliere con la pastosità materica ed intimistica che troviamo, ad esempio, in Cèzanne.
   L’ho detto all’inizio, con la pittura di Miria Mesiano ci si avventura nel Giardino dell’Eden, dove agisce il Serpente primordiale, che certamente non è quello biblico dell’inganno e della caduta, bensì quello del potere creativo femminile. Il potere misterico della donna è rappresentato simbolicamente dal Serpente, che incarna il ciclo delle trasformazioni e la pulsione sensuale che feconda i molteplici mondi concatenati allo svolgersi circolare delle sue spire. L’energia serpentina è protagonista di molti miti della Creazione, ad esempio come il Serpente Arcobaleno della cultura aborigena australiana, oppure come Naga e kundalini in Oriente. È un’energia potentissima e conturbante, poiché dà vita alla Natura infondendovi passioni infuocate. Il suo veleno è la dimenticanza dell’Unità originaria, dato che questa forza ancestrale esercita l’incantesimo ipnotico che lega al mondo, altrimenti non potrebbe crearlo. Ma proprio il suo veleno, l’illusione mondana, contiene l’antidoto, che è l’amore. L’amore è l’energia impersonale che risveglia all’Uno, riunendo nel cuore ciò che è apparentemente diviso. E non c’è altra porta che questa per tornare al Tutto. L’arte di Miria Mesiano è intensamente femminile, quindi viscerale, emotiva e sensuale. L’artista cede al sogno penetrando a fondo nell’ipnosi visionaria e creativa, e così facendo vuole suscitare l’amore che riunisce e risveglia. 
   La pittrice collabora con la Natura, o meglio si immedesima facendosi albero, terra, acqua, pianta e soprattutto fiore, perché ricerca la quintessenza infusa nella Natura, che è, ancora una volta, l’amore. Il fiore è l’atto d’amore della pianta, e il profumo del fiore è un atto d’amore più alto, che si sparge rarefacendosi in dono al mondo. Credo che sia questa la motivazione interiore e profonda per cui Miria Mesiano ha dedicato una serie di dipinti ai profumi, intendendo formare ed esalare amore tramite la propria ricerca artistica. Ed è chiaro, per quanto abbiamo detto, che il suo accento non è tanto sull’essenza volatile del profumo, quanto sulla materia raffinata che lo promana. Ma c’è dell’altro: il senso dell’olfatto è l’unico che la mente non può controllare e censurare, in quanto arriva direttamente all’ipotalamo suscitando impressioni irrefrenabili. Una fragranza si associa spesso ad un ricordo, rendendolo presente, poiché il suo effetto eterico annulla le illusorie distanze spazio-temporali. E il livello più alto del ricordo è quello della natura essenziale dell’Unità, che ci riporta a casa. Questa nostalgia atavica del ritorno, modulata nel ricordo ancestrale, è ciò che sempre motiva l’arte e l’artista. Nella pittura di Miria Mesiano, apre il magico ingresso del Giardino.
   Il Giardino in cui l’artista invita ad entrare stupisce con ricche inflorescenze inattese, con luoghi misteriosi che si aprono come ventagli, con riflessi luminosi nell’acqua o arcobalenanti in cielo. Concrezioni circolari di radianze si offrono come frutti istantaneamente maturi e ricolmi di succhi nutrienti, oppure si disegnano come sipari che non celano bensì offrono prospettive inconsuete alla visione, sfidandola ad abbandonare il conosciuto. Tutto ruota sul cardine folgorante di un puro e saturo cromatismo, che dà vita al mondo nuovo dell’immaginazione creativa; anzi sono molti mondi germoglianti dallo stesso albero. Infatti il dipinto non gravita attorno ad un solo centro, ma presenta molteplici centri di intercomunicazione con la centralità interna ed essenziale dell’Anima, amplificando nell’osservatore la portata della percezione. Il cerchio, continuamente presente, unisce il dentro e il fuori come soglia interdimensionale da cui si nasce nella forma, ma anche da cui, a ritroso, si può accedere alla realtà ultrasensibile. Secondo molte culture arcaiche è attraverso il cerchio che entrano ed escono gli spiriti. Inoltre spesso si assiste allo svolgersi spiraliforme che è il tratto distintivo dell’Anima femminile. 
   Vagabondando nel mistero dipinto da Miria Mesiano, ci si volge alla scoperta generosa, e si può sostare in oasi minime e frattali, interconnesse nell’universale bagliore che suscita la meraviglia multidimensionale del creato. Dal cuore di tale foresta dell’Anima emergono apparizioni fluorescenti e proliferano identità sovrapposte. Queste portano mille volti appena affioranti dalla materia in fusione del colore, ma segnati dal segreto indicibile delle inesauste metamorfosi del mondo. Sarebbe un errore leggere queste figure in senso psicologico, come maschere molteplici dell’Io, e, seppure siano in qualche modo riconducibili al vissuto affettivo della pittrice, di cui abbiamo detto l’importanza, sono ancor più delle identità impersonali che cantano la nostalgia del Tutto incognito, che le inventa per manifestarsi ed essere finalmente riconosciuto.

   Sono grato che Miria Mesiano mi abbia invitato a visitare e a raccontare il suo Giardino. Ho visto, toccato e annusato, e la qualità pregiata della sua opera mi ha intimamente coinvolto. Per rendere omaggio, ho trovato queste parole, che mi auguro siano un eco fedele dalla profondità dei suoi quadri.

giovedì 6 novembre 2014

Satvat su Escher

 
 
Ho conosciuto l’opera straordinaria di Escher all’inizio degli anni ’70. Era quello il periodo della gioventù che rompeva gli schemi della conformità e ricercava nuove dimensioni del mondo e soprattutto della psiche, per cui Escher non poteva mancare d’affascinare. L’occhio della visione, stimolato anche dalle esperienze psichedeliche, trovava nelle costruzioni multidimensionali di Escher delle suggestioni meravigliose: saliva e discendeva le scale delle sue architetture impossibili, esplorava la magia del paradosso, coglieva l’incastro sincronico di conscio e inconscio, gustava l’irrefrenabile metamorfosi e il modo sofisticato con cui i particolari ricomponevano l’unità. Tutto rigorosamente nel bianco e nero, nella polarizzazione di luce e ombra. Infatti Escher ha focalizzato nella sobrietà essenziale dell’inchiostro la proliferazione vertiginosa delle forme, come avevano fatto gli antichi pittori orientali, ma con altro intendimento. Per questo, la sua opera risultava inusuale nell’esplosione ipercromatica e lisergica di quegli anni, tuttavia noi, viaggiatori del Sogno, sapevamo che, se differenti erano i percorsi, identica era la meta: il bersaglio dell’attualità visionaria
.
Se nella psichedelia era trionfante il colore, dionisiaco ed eccitante nelle emozioni, per contro in Escher le emozioni non sono affatto il mezzo scelto per espandere la coscienza, piuttosto si utilizza il pensiero. Il suo lavoro è il frutto di una grande disciplina interiore, che si mostra nel segno ossessivamente meticoloso, nella geometria esatta anche se capovolta, nell’immagine iper-ragionata che prende vita dallo specchio di Alice dell’arte. Il pensiero - perciò il bianco e nero, caratteristico della funzione primaria e binaria della mente - è cristallizzato in un’elevazione di potenza che lo rende capace di disegnare le coordinate esoteriche dello spazio.
 E lo spazio, nell’opera di Escher, si moltiplica in dimensioni sovrapposte e coincidenti, superando il tempo della rappresentazione artistica sino ad annullarlo. Perciò le figure procedono nel campo del disegno trovandosi sempre a ripercorrere l’inizio, restando in apparenza prigioniere dello spazio, ma, nell’alto senso della magia, sono invece liberate dalla bidimensionalità disegnata e rese capaci di incredibili tragitti nell’altrove, dov’è evidente l’arcano del qui-e-ora. Tempo più spazio, così formiamo l’idea consueta del mondo; mancando il tempo, lo spazio diviene un seme di infiniti universi potenziali: questo è il miracolo che Escher ha inteso mostrarci, anticipando le comprensioni della fisica quantistica. I suoi personaggi sono attoniti, privi di personalità e sottoposti al gioco dell’invenzione; infatti non sono intesi come protagonisti, piuttosto come semplici pedine sulla scacchiera multidimensionale dell’immaginazione. E’ l’osservatore il vero protagonista che, sedotto ad addentrarsi nei labirinti concepiti nel disegno, può giungere ad aprire l’occhio che coglie l’invisibile.

domenica 11 settembre 2011

Satvat per Gréta Cork

Gréta Cork - Passage - 2011

La pittura di Gréta Cork ha due anime: una è risolutamente devota al colore, tanto da non arginarlo nella figurazione, l'altra si ingegna nel disegno. Nel colore la pittrice non si accontenta di trastullarsi, inventando chimere coloriste prive di potere, ma va a saggiare nel profondo della materia, testando con metodica d'alchimista le nature inerti dei colori. Quindi, cuocendoli nell'athanor del suo cuore, li sottopone al fuoco della creazione, sino a che iniziano ad agitarsi interiormente, a trasmutare. Entrano così in movimento, con una forza di proiezione che li porta a moltiplicarsi in miriadi di tessere cromatiche ed irrequiete, che tenderebbero a sfuggire nel caos se non fossero ancorate allo sguardo dell'autrice. 
Così attivati nel profondo, i colori sarebbero pronti ad esplodere in turbolenze disordinate, ma con cura amorevole l'artista li vincola ad un sentimento di centralità pulsante. Allora, non potendo disperdersi, le tessere colorate iniziano a ruotare come in un caleidoscopio. I quadri di Gréta mostrano questa qualità caleidoscopica d'inarrestabile movimento, che fluisce e si ricrea circolarmente. Non so se la pittrice ha appreso anche dalle leggi del Tao, espresse dagli antichi pittori orientali che dipingevano filosoficamente nel cerchio, seguendo il moto circolare della vita; certamente l'ha imparato vivendo, con se stessa e nell'arte. 

A mio parere, il mondo puro del colore è per Gréta un sentimento più privato, mentre tramite il disegno si adopera a comunicare, segnalando le sue mappe della creazione. Fa questo con un arazzo ludico di figurazioni fittamente compenetrate, brulicanti. Ecco allora un Carnevale di maschere e di metamorfosi, con una stesura piatta del colore e con un gusto del contrasto che potrebbero far pensare al Pop, poiché l'artista delinea un insieme in cui nessuna figura denuncia un approfondimento personale o drammatico. Tuttavia – a differenza del Pop – c'è un calore interno, di sentimento, che sostiene internamente l'impianto pittorico; in questo modo esso risulta fitto ma trasparente, lasciando trapelare l'intima motivazione.

venerdì 27 maggio 2011

Satvat per Roberto Ausilio - postfazione al suo libro "Ali di vetro"

Siamo amici, Roberto e io, tuttavia, porgendo queste sue poesie alla mia riflessione, mi ha rivelato aspetti nuovi, e più profondi, della sua anima. Questo è quello che fa il poeta: apre il suggello dell'anima e lascia che ne sgorghi il liquore della profondità, materia misteriosa, intima e massimamente sensibile. Egli ci avverte di non essere poeta, dicendo che “la poesia piuttosto/ talvolta subisco”, e testimoniandolo manifesta, con semplicità, la verità più alta. Infatti nessuno è mai poeta, o artista; è la Poesia che, quando trova un cuore sensibile, può manifestarsi. Gaudì, il grande architetto/artista catalano, affermava risolutamente che l'uomo non può creare, ma è la Natura a farlo per suo tramite. Siamo noi stessi parte integrante del grandioso spettacolo della Creazione, e immersi in un kosmos multidimensionale, rutilante di essenze, vibrazioni e emozioni; tutta questa vita fermenta inesauribilmente, governata dall'Ispirazione che porta ogni seme a fioritura, anche i semi volatili della Poesia. 

Chi rimane schiacciato dalla routine e dall'estraneazione di sé è costretto a dimenticarlo, ed è quindi un cattivo giardiniere, che seppellisce il proprio giardino con le macerie cementizie della mente. Al contrario, il pregio dell'artista è quello di rassodare il terreno e attendere fiduciosamente i fiori, cosa che si può fare solo vivendo, e vivendo intensamente. Il poeta è un coraggioso che non si risparmia, che si getta con delizia nel vortice delle emozioni, ben sapendo che ogni volta è una nuova iniziazione. Che ogni volta ne verrà trasformato, provando l'eccitazione indicibile dell'appartenenza, sentendosi parte vibrante di un Tutto ma con la consapevolezza che tutto è, al contempo, dentro e al di fuori di noi stessi, che tutto ci vive e ci riguarda, e insieme può essere contemplato: un sincretismo misterico che appicca il fuoco interiore. Un fuoco dolce ma indomabile, il quale sospinge all'alchimia del senso poetico, che solo dopo mille risacche dell'anima può spiaggiare, con innocenza, sulla carta. È il canto di una fame atavica di rivelazione, che nulla potrà mai colmare, tanto che Roberto dice: “non posso saziare questa fame infinita”; infatti non si può venire a capo dell'immenso mistero della Vita, però si può viverlo e cantarlo. Ed è questa la somma ispirazione che si può trarre dagli scritti di ogni vero poeta: una seduzione a vivere più intensamente, aprendo occhi capaci di cogliere i mille piccoli/grandi miracoli.

Un aspetto che mi ha particolarmente colpito delle poesie di Roberto, è l'agire diretto degli elementi naturali; sono questi - com'è, con versi meno drammatici, anche nell'haiku giapponese - a provocare le visioni del poeta. Egli si espone all'aria, al raggio di sole, al chiarore argenteo della luna, al flusso dell'acqua, traendone una maestria d'evocazione poetica. Per cui giustamente scrive: “non nasce dal petto questo canto/ ma dal ramo assetato di sole”. Roberto, proprio come un ramo, sta piantato in terra e disteso nel cielo; non si arroga l'arbitrio di una scelta, e si lascia piuttosto permeare dagli influssi naturali: ondeggiando liberamente, traduce il suo stormire di fronde in poesie. Poesie che conservano memoria del vento che le ha attraversate, e del tocco leggero che le ha accarezzate. In questo sono vivamente sensuali, ma con una sfumata qualità di eco, che non cessa di risuonare. 

Ed anche, a mio parere, Roberto è poeta che ha memoria delle sua terra natia e delle proprie radici: un mondo popolato d'umanità esuberante quanto riservata, asciutto pur se carico di frutti e di effluvi ammalianti. Un mondo interiorizzato, scavato nell'anima come i suggestivi “sassi” della sua Matera; chi si aggirasse con accortezza in questi percorsi primordiali e tortuosi, può incorrere in visioni forti ed inaspettate, che sono i benefici tranelli con cui l'anima si rivela a se stessa. Questo è il mio augurio ai lettori, ed è il complimento che posso tributare al mio amico poeta.

sabato 19 marzo 2011

Satvat su Marc Chagall

Marc Chagall - L'artista e la sua modella - 1949

Marc Chagall è pittore straordinario della nostalgia, di una nostalgia che egli ha riferito particolarmente al paesetto natio, Vitebsk, ma che in realtà ha un significato ben più simbolico e mistico. Nella pittura di Chagall, Vitebsk non è un luogo geografico bensì un luogo del sogno e dell'anima, dove si aggirano caprette parlanti ed altri animali prettamente simbolici e umanizzati. Le case sono architetture scenografiche e inabitate, come in un presepio, e la popolazione umana ha un deciso carattere fiabesco, quando sta arrampicata sui tetti ma anche se ritratta in normali occupazioni. Il colore si sparge nel paesaggio con nuvole vivamente cromatiche, le quali appaiono sospinte da un vento misterioso, che suscita personaggi, cose ed emozioni affascinanti poiché indefiniti. A Vitebsk anche il tempo non ha uno scorrimento ordinario, ma forma quinte in cui si riflettono accadimenti passati, presenti, futuri, e che mai avverranno, con un senso straordinario ed intrigante di contemporaneità.

Il pittore ha creato questo suo mondo immaginifico sulla tela credendoci con innocenza, così ha compiuto il miracolo di renderlo pulsante, conferendogli quell'assolutezza con cui i nostri sogni notturni ci illudono d'essere veri. Con tale incantesimo i sogni a volte possono comunicarci dei misteri, e questo è il modo con cui la nostalgia dell'artista ci contagia dolcemente. Una nostalgia simile alla melanconia dell'alchimista, ma affatto saturnina bensì ridente; però non meno spirituale. Infatti Chagall è stato un mistico che ha scelto di dipingere piuttosto di recarsi alla sinagoga, che alla rigidità dell'orazione canonica ha preferito la danza della pittura. In ciò ha mostrato il folle genio dei mistici hassidi che egli aveva visto piroettare sulle piazze della sua infanzia; sono certo che lì comprese come l'autentico misticismo sia al di là delle regole, che la vera preghiera si matura nel vivere, e nel vivere intensamente con l'apertura del cuore. Egli è stato infatti un pittore-musico errante, come i suoi violinisti trasfigurati, ed ha composto sarabande di colori e di figurine aggraziate e sorridenti.

La sua è una canzone eterna dell'intimità e dell'amore, di cui la donna amata è stata Dea e musa ispiratrice. Il sogno di Chagall parve lacerarsi dopo la morte di Belle, ma per fortuna sorse per lui un'altra Luna; due donne amatissime che sono state uno stesso archetipo femminile nella sua pittura quanto nella sua vita, uno specchio irrinunciabile per rasserenarsi nella fiducia della congiunzione alchemica degli opposti. Il pittore si è continuamente raffigurato insieme all'amata, ma senza l'investigazione introspettiva dell'autoritratto; non ha inteso vedersi personalmente, bensì celebrare l'unione amorosa, in cui la presenza del singolo è irrilevante. Quella coppia che ha così tanto accarezzato con la sua pittura è un gioco di specchi, una formula d'integrazione, un costante richiamo all'androginia spirituale, una posizione di unità intorno a cui si compone il grande spettacolo dell'irrefrenabile generazione, quasi un mandàla della Creazione.

lunedì 13 dicembre 2010

Satvat su Odilon Redon

Odilon Redon - Budda - 1905-10

Per riflettere sul significato del colore nella Pittura, possiamo avvalerci della vicenda, umana ed artistica, di Odilon Redon. Egli ebbe un’infanzia solitaria, da cui contrasse incubi ed ossessioni che lo accompagnarono per molto tempo. Il suo carattere introverso lo sospinse ad un’avventura fortemente introspettiva ed “in nero”; infatti, per molti anni si dedicò quasi esclusivamente a disegnare con la grafite ed il pastello nero. Queste opere mostrano temi ricorrenti, oscuri e fortemente simbolici: enormi ragni ghignanti, teste mozzate dal martirio ed offerte su vassoi, bulbi oculari fluttuanti e filamentosi, che galleggiano in notti soffocanti. L’intima sofferenza lo portava ad indagare nell’interiorità, per fronteggiare i propri incubi, percorrendo ciò che Jung ha chiamato un “percorso d’individuazione”. I suoi mostri dipinti sono fortemente significativi: il ragno è il tessitore dei labirinti tortuosi della psiche, belva insidiosamente allusiva che il pittore voleva vincere tramite la forza redentrice del pensiero, simboleggiato dalle numerose teste senza corpo che hanno popolato le sue opere; l’occhio, spesso raffigurato volto in alto come a cercare la salvezza di una visione superiore, è lo spietato veicolo di una “opera al nero”, di un’inesausta indagine a cui tutto va sacrificato, per cui l’uomo giunge a trasformarsi in parossistico ciclope. 

E questa totalità diede i suoi frutti: dopo anni di volontaria reclusione nel “nero”, Redon fu in qualche modo fuori dal tunnel, ed approdò finalmente al colore. Qualcosa era accaduto, qualcosa che, a mio parere, i critici non hanno saputo capire, ma che ha favorito una svolta radicale. L’intuizione mi dice che la sua caccia, proprio perché così totale, ha avuto un esito inaspettato: ha portato l’artista, ben oltre le sue stesse intenzioni, al di là del mentale, almeno per un momento. Il sorgere spontaneo della meditazione lo ha rapito nel colore. Tale svolta è segnata dall’opera “Gli occhi chiusi” (1890); da questo quadro si intuisce che il pittore è totalmente preso all’interno, e morbidamente arreso al misterioso flusso dell’Interiore. Da allora non ci sono più stati occhi ansiosi fuori dalle orbite, mai più i mostri paradossali della mente, ma piuttosto creature alate, vaporosità cromatiche, morbide figure nascenti dal colore, “acquari del sogno”, e persino un Buddha vicino all’albero del bhodi. Può darsi che Redon abbia vissuto qualcosa di simile a ciò che in Oriente viene chiamato satori, un episodio di illuminazione temporanea: per un momento il sipario della mente si apre, e si viene fecondati dalla bellezza del Reale. Da ciò giunge una straordinaria e nutriente energia, che il pittore si è prodigato a manifestare con i colori più vivaci. Il famoso quadro “Il ciclope” (1898–1900) sembra confermare la mia intuizione; in esso vediamo un ciclope che appare mansueto, ben più pacificato di quelli dei precedenti disegni “noir”, il quale osserva dall’alto una figura umana, forse androgina, adagiata su un letto di fiori. L’occhio del pensiero sta osservando qualcosa che stenta a capire, qualcosa che non è ancora compiutamente risvegliato; si avverte lo stupore, persino incredulità; eppure pare quasi di sentire il profumo di quella culla floreale, profumo che l’artista aveva avvertito, per cui non poté dubitarne. In altri lavori egli ripropose il tema degli occhi chiusi, ma con un evidente sentimento di nostalgia, come se non riuscisse a ricontattare quella straordinaria Ispirazione. Il satori è passeggero, è un assaggio che scatena la fame dell’Essenziale; probabilmente seguendo questa fame del Trascendente, i quadri successivi si fecero simili a miraggi inafferrabili, sublimati in cromie trasognate. 

Poi, nell’ultima fase della sua opera, Redon pare quasi aver sperso la speranza, ed un’ultima enfasi del ricordo di quella Luce prese le sembianze dei molti mazzi di fiori, soggetto allora preferito, posti in vasi che sembrano voler mantenere viva quella memoria, di cui i coloratissimi fiori sono il simbolo. In questi quadri, si coglie una nostalgia struggente, venata di rimpianto; il vaso (forse simbolo della mente che ricorda) pare spesso quasi indegno dei fiori che contiene, e gli sfondi tornano talvolta a popolarsi di ombre. Emblematico di ciò è “Ranuncoli in un vaso blu” (1914): il vaso blu, colore contemplativo e animico, contiene fiori rossi, gialli e rosa, dei quali uno è caduto; una grande ombra lo inghiotte da destra; tutta la composizione risulta fortemente sfocata, come se fosse prossima a scomparire.

Tratto dal libro di Satvat IL TAO DELLA PITTURA - Bastogi, 2009

martedì 30 novembre 2010

Satvat per Tarshito


Il Vaso e la Foglia - 2010. Realizzazione/ Made by: Cristiana Fasano
Struttura in metallo e ceramica/Structure in metal and ceramic
diam. max. cm.108x255h
Tarshito (Nicola Strippoli) ha una particolare figura di architetto, designer e performer. Il suo impegno creativo segue percorsi propri nel mondo dell'Arte, come un torrente che esplora territori inaspettati e raccoglie affluenti divenendo più forte, trasportando nel suo scorrere ispirazioni, esperienze e fragranze diverse, che gioisce nel condividere. C'è in Tarshito qualcosa di rinascimentale, quel sole dell'intelletto che porta mille semi a fioritura, elaborando un progetto intonato all'Anima Mundi che si sviluppa in un'officina di realizzazioni comuni, in cui molti artisti ed artigiani partecipano con i loro talenti, al di là di ogni supponibile barriera culturale. Quella del Tarshito Group è un'orchestra, una comunione d'intenti che trascende la solitudine dell'artista evidenziando che noi siamo il mondo. Noi siamo il mondo, e ciò implica responsabilità di consapevolezza, di creazione, e di unione. Comprendendo questo, non si legittimano le povertà individuali, né le lagnanze: c'è così tanto da esplorare, creare e condividere. 

Elaborare nuove visioni del mondo è l'alto compito dell'Arte, realizzabile con espressioni meditate ed ispirative. Se ciò si verifica, l'architettura intangibile dello Spirituale informa l'Architettura terrena, formando un mondo nuovo e più vitale. L'Architettura è etimologicamente e simbolicamente la scienza di fondare in Terra i pilastri verticali che richiamano il Cielo, ed ha in sé il senso del sacro, di una corresponsione tra la progettualità umana, le leggi della Natura, e la libertà ascensionale dello Spirito. E non è una questione di proporzioni, bensì una corrente d'ispirazione e costruzione che va dal Macro al Microcosmo, così come ci mostra la Natura che edifica con stessa perfezione ciò che è grandioso quanto l'organismo tanto minuto da essere invisibile allo sguardo. Perciò la magia di una cattedrale non è superiore a quella delle piccole architetture di cera di Tarshito, in cui il materiale organico e molle evidenzia l'imprimatur essenziale dell'impermanenza. Nella Vita niente è definitivo, tutto è nel flusso; e così l'opera d'arte che resta ferma, che dà un'impressione conclusa, non è affatto Arte, non essendo esistenziale. Di questo abbiamo esempi eclatanti, come l'eterno cantiere della cattedrale di Gaudì, inaugurata proprio in questi giorni ma formalmente libera da conclusione; in realtà ogni opera d'arte, che sia dipinto, o scultura, o qualsiasi cosa, deve mantenere una tensione dinamica, una vita interiore che sia pervasa dal flusso. 

Credo che proprio questa comprensione abbia ispirato Tarshito a elaborare con costanza il topos del vaso, oggetto aperto e ricco di riferimenti simbolici. Il vaso è femminile e sempre potenzialmente gravido, innanzitutto pregno di spazio. È un contenitore, ma in senso simbolico, non meramente funzionale: il suo compito è quello di valorizzare lo spazio, così come il corpo valorizza l'anima, permettendole di fare esperienze. L'accezione platonica del corpo come prigione dell'anima è infatti erronea e giunge ad essere negativa della Vita; tuttavia la percezione corporea, terrestre, deve restare aperta alla sommità per accogliere meditativamente la vastità, com'è nel vaso. Questo è vasus alchemico, ampolla in cui può compiersi il prodigio della Rivelazione. La sua materia è umile quanto preziosa, e Tarshito lo evidenzia con raffinate cesellature delle materie, con tessiture finemente cromatiche, con ricami simbolici, a volte con pennellate libere infuse di Zen. Il vaso è grembo della Natura, come lei ricco di espressioni mutevoli, di figure, di sogni poetici della Creazione; così è racconto e tangibile metafora del contenuto inesprimibile. 

L'artista stesso è vaso, piena rispondenza ricettiva quanto trasmissiva. Tarshito di ciò s'investe pienamente e, come ha detto egli stesso, si adopera nel cercare “nel crogiolo del sapere antico, della saggezza di sempre e portare tutto questo nell'Arte”.