Ho conosciuto l’opera straordinaria di Escher all’inizio degli anni ’70.
Era quello il periodo della gioventù che rompeva gli schemi della
conformità e ricercava nuove dimensioni del mondo e soprattutto della
psiche, per cui Escher non poteva mancare d’affascinare. L’occhio della
visione, stimolato anche dalle esperienze psichedeliche, trovava nelle
costruzioni multidimensionali di Escher delle suggestioni meravigliose:
saliva e discendeva le scale delle sue architetture impossibili,
esplorava la magia del paradosso, coglieva l’incastro sincronico di
conscio e inconscio, gustava l’irrefrenabile metamorfosi e il modo
sofisticato con cui i particolari ricomponevano l’unità. Tutto
rigorosamente nel bianco e nero, nella polarizzazione di luce e ombra.
Infatti Escher ha focalizzato nella sobrietà essenziale dell’inchiostro
la proliferazione vertiginosa delle forme, come avevano fatto gli
antichi pittori orientali, ma con altro intendimento. Per questo, la sua
opera risultava inusuale nell’esplosione ipercromatica e lisergica di
quegli anni, tuttavia noi, viaggiatori del Sogno, sapevamo che, se
differenti erano i percorsi, identica era la meta: il bersaglio
dell’attualità visionaria
.
Se nella psichedelia era trionfante il colore, dionisiaco ed eccitante
nelle emozioni, per contro in Escher le emozioni non sono affatto il
mezzo scelto per espandere la coscienza, piuttosto si utilizza il
pensiero. Il suo lavoro è il frutto di una grande disciplina interiore,
che si mostra nel segno ossessivamente meticoloso, nella geometria
esatta anche se capovolta, nell’immagine iper-ragionata che prende vita
dallo specchio di Alice dell’arte. Il pensiero - perciò il bianco e
nero, caratteristico della funzione primaria e binaria della mente - è
cristallizzato in un’elevazione di potenza che lo rende capace di
disegnare le coordinate esoteriche dello spazio.
E lo spazio, nell’opera di Escher, si moltiplica in dimensioni
sovrapposte e coincidenti, superando il tempo della rappresentazione
artistica sino ad annullarlo. Perciò le figure procedono nel campo del
disegno trovandosi sempre a ripercorrere l’inizio, restando in apparenza
prigioniere dello spazio, ma, nell’alto senso della magia, sono invece
liberate dalla bidimensionalità disegnata e rese capaci di incredibili
tragitti nell’altrove, dov’è evidente l’arcano del qui-e-ora. Tempo più
spazio, così formiamo l’idea consueta del mondo; mancando il tempo, lo
spazio diviene un seme di infiniti universi potenziali: questo è il
miracolo che Escher ha inteso mostrarci, anticipando le comprensioni
della fisica quantistica. I suoi personaggi sono attoniti, privi di
personalità e sottoposti al gioco dell’invenzione; infatti non sono
intesi come protagonisti, piuttosto come semplici pedine sulla
scacchiera multidimensionale dell’immaginazione. E’ l’osservatore il
vero protagonista che, sedotto ad addentrarsi nei labirinti concepiti
nel disegno, può giungere ad aprire l’occhio che coglie l’invisibile.