Ho scritto molto - nei libri già pubblicati da importanti Case Editrici - e continuerò a scrivere sull'Arte, rintracciando il nesso spirituale che la realizza come profonda riflessione dell'esperienza umana. Negli anni ho anche messo la mia penna a disposizione degli artisti, esprimendo con chiarezza meditativa i loro messaggi.

Nella crisi attuale, l'Arte deve assumersi la responsabilità di approfondirsi, divenendo il veicolo creativo ed esemplare del nuovo; per questo diviene ancor più rilevante la sua capacità di comunicazione. In tale prospettiva, anche la scrittura sull'Arte assume un nuovo significato: cessando d'essere un'esercitazione di mestiere, deve saper esprimere la vitalità intuitiva che può raggiungere il cuore delle persone, per resuscitarlo col sentore di ciò che è vero.

In questo sito intendo donare visibilità agli artisti che hanno deciso di avvalersi della mia scrittura per presentare il loro lavoro. Inoltre presento le mie meditazioni su importanti artisti storici.


SATVAT E' ARTISTA VISIVO E SCRITTORE

SATVAT E' ARTISTA VISIVO E SCRITTORE
clicca sulla foto per andare al nuovo sito www.satvat.it

martedì 30 novembre 2010

Satvat per Tarshito


Il Vaso e la Foglia - 2010. Realizzazione/ Made by: Cristiana Fasano
Struttura in metallo e ceramica/Structure in metal and ceramic
diam. max. cm.108x255h
Tarshito (Nicola Strippoli) ha una particolare figura di architetto, designer e performer. Il suo impegno creativo segue percorsi propri nel mondo dell'Arte, come un torrente che esplora territori inaspettati e raccoglie affluenti divenendo più forte, trasportando nel suo scorrere ispirazioni, esperienze e fragranze diverse, che gioisce nel condividere. C'è in Tarshito qualcosa di rinascimentale, quel sole dell'intelletto che porta mille semi a fioritura, elaborando un progetto intonato all'Anima Mundi che si sviluppa in un'officina di realizzazioni comuni, in cui molti artisti ed artigiani partecipano con i loro talenti, al di là di ogni supponibile barriera culturale. Quella del Tarshito Group è un'orchestra, una comunione d'intenti che trascende la solitudine dell'artista evidenziando che noi siamo il mondo. Noi siamo il mondo, e ciò implica responsabilità di consapevolezza, di creazione, e di unione. Comprendendo questo, non si legittimano le povertà individuali, né le lagnanze: c'è così tanto da esplorare, creare e condividere. 

Elaborare nuove visioni del mondo è l'alto compito dell'Arte, realizzabile con espressioni meditate ed ispirative. Se ciò si verifica, l'architettura intangibile dello Spirituale informa l'Architettura terrena, formando un mondo nuovo e più vitale. L'Architettura è etimologicamente e simbolicamente la scienza di fondare in Terra i pilastri verticali che richiamano il Cielo, ed ha in sé il senso del sacro, di una corresponsione tra la progettualità umana, le leggi della Natura, e la libertà ascensionale dello Spirito. E non è una questione di proporzioni, bensì una corrente d'ispirazione e costruzione che va dal Macro al Microcosmo, così come ci mostra la Natura che edifica con stessa perfezione ciò che è grandioso quanto l'organismo tanto minuto da essere invisibile allo sguardo. Perciò la magia di una cattedrale non è superiore a quella delle piccole architetture di cera di Tarshito, in cui il materiale organico e molle evidenzia l'imprimatur essenziale dell'impermanenza. Nella Vita niente è definitivo, tutto è nel flusso; e così l'opera d'arte che resta ferma, che dà un'impressione conclusa, non è affatto Arte, non essendo esistenziale. Di questo abbiamo esempi eclatanti, come l'eterno cantiere della cattedrale di Gaudì, inaugurata proprio in questi giorni ma formalmente libera da conclusione; in realtà ogni opera d'arte, che sia dipinto, o scultura, o qualsiasi cosa, deve mantenere una tensione dinamica, una vita interiore che sia pervasa dal flusso. 

Credo che proprio questa comprensione abbia ispirato Tarshito a elaborare con costanza il topos del vaso, oggetto aperto e ricco di riferimenti simbolici. Il vaso è femminile e sempre potenzialmente gravido, innanzitutto pregno di spazio. È un contenitore, ma in senso simbolico, non meramente funzionale: il suo compito è quello di valorizzare lo spazio, così come il corpo valorizza l'anima, permettendole di fare esperienze. L'accezione platonica del corpo come prigione dell'anima è infatti erronea e giunge ad essere negativa della Vita; tuttavia la percezione corporea, terrestre, deve restare aperta alla sommità per accogliere meditativamente la vastità, com'è nel vaso. Questo è vasus alchemico, ampolla in cui può compiersi il prodigio della Rivelazione. La sua materia è umile quanto preziosa, e Tarshito lo evidenzia con raffinate cesellature delle materie, con tessiture finemente cromatiche, con ricami simbolici, a volte con pennellate libere infuse di Zen. Il vaso è grembo della Natura, come lei ricco di espressioni mutevoli, di figure, di sogni poetici della Creazione; così è racconto e tangibile metafora del contenuto inesprimibile. 

L'artista stesso è vaso, piena rispondenza ricettiva quanto trasmissiva. Tarshito di ciò s'investe pienamente e, come ha detto egli stesso, si adopera nel cercare “nel crogiolo del sapere antico, della saggezza di sempre e portare tutto questo nell'Arte”.

giovedì 25 novembre 2010

Satvat su Henri Michaux

A mio parere, Henri Michaux non è stato un pittore; piuttosto un grande scrittore, che ha scritto anche con la pittura. In modo estremo, massimamente franco e disarmante. Comunque ai suoi dipinti ha riservato un posto speciale, nel giardino in cui ha coltivato i tesori dell'arte della scrittura. Stregato dalla calligrafia dell'Estremo Oriente, Michaux ha cercato il potere misterico delle matrici dei segni, quella virtù esoterica che, si diceva nei tempi antichi, aveva fatto fuggire i demoni, intimoriti perché con l'invenzione degli ideogrammi l'uomo aveva acquisito la supremazia su di loro. Ma i suoi segni sono antenati illogici degli ideogrammi, balbettamenti di un alfabeto non formato, mai pronunciato, antecedenti ad ogni idea ed alla stessa intenzione di comunicare.

Infatti l'artista non ha affatto inteso comunicare (per questo dico che la sua non è effettivamente pittura), piuttosto sperimentare in solitudine l'origine ancestrale del segno: le linee di frattura del dischiudersi dell'uovo del silenzio. Lo ha fatto scardinando ogni possibile riconoscimento linguistico, usando il pennello non per tracciare segnicamente un contenuto, ma per miscelare l'informe, e da questo trarre l'infinitesimo segnale di una genesi in atto. L'uso di sostanze psicotrope ha aiutato l'artista a scavallare la normativa del pensiero, sino all'agnosia in cui la mano viene mossa da un puro istinto del tutto impersonale. I suoi dipinti mescalinici non mostrano l'intervento di un pittore, appaiono piuttosto tracciati da insetti striscianti, da cadute di foglie tingenti, da polveri depositate; una magia del caso, ma di un caso tutt'altro che privo di senso, affine al Li con cui gli antichi taoisti definivano l'ancestrale saggezza universale che aveva venato la giada, o il legno.

Il caso agente nella pittura di Michaux è infatti molto meno casuale di tante sterili operazioni dell'Arte contemporanea, perché lì egli ha fortemente meditato, percependo l'armonia nascosta. Sfuggendo al desiderio di esibire e di conferire un arbitrario significato, egli ha assaporato il nulla sperimentando il minimo, e suscitato significato solo in virtù della propria onesta preghiera. Questa onestà, qualità sovrana di ogni vero artista, è ciò che maggiormente apprezziamo.

domenica 21 novembre 2010

Satvat per Francisco Zúñiga

Francisco Zúñiga è uno dei più grandi artisti contemporanei del Messico. Anni fa ho avuto il piacere di comporre per lui questo scritto, poco prima della sua scomparsa.
Francisco Zúñiga - Desnudo con manos a la cara, 1970

Contemplando l'arte di Francisco Zúñiga.

Nel tempio della Terra, le gambe tornite e salde delle donne sono colonne, piegate mai neppure sotto il peso del dolore. Nella resa sacrificale, la donna ha il dono innato della leggerezza e della fierezza che redime il destino.

Ho attraversato una galleria di ritratti e figure, primordiali come pitture rupestri – sagge icone dell'eterno divenire. Ho veduto nei volti anziani la freschezza indeturpabile della progenie, e giovani fanciulle antiche come le ere del mondo. Il Tempo in corsa s'impiglia nelle sottane, e progetta il futuro lasciando la canzone ardente della memoria.

Con stupore, ho veduto la maestà del ventre rotondo e pregno – impronta terrena dell'Infinito. Con stupore, vi ho ascoltato il ruggito interno del fuoco, e la frusciante, tiepida acqua della consolazione.

martedì 16 novembre 2010

Satvat per Julliet Ramirez Hernandez

Julliet Ramirez Hernandez - Cassandra Mistica
La pittrice venezuelana Julliet Ramirez Hernandez applica nelle sue immagini surrealiste un chiaro talento di “sognatrice”, nel senso sciamanico. Tale “sognare” spirituale è il mezzo per addentrarsi nei territori irrazionali e simbolici della Vita, nel misterioso Nagual delle correnti interiori, caotiche e irrefrenabilmente creative. Lo sciamano non pietrifica il flusso e il potere della visione con la mediocrità del senso comune, bensì ne cavalca con saggezza l'onda poderosa, traendone forze che sono normalmente inaccessibili. Julliet realizza questo compito con una sensitività squisitamente femminile, da Cassandra mistica, dipingendo una realtà onirica che necessita della Luna per rendersi manifesta. 

Intensa è la sua impressione del colore: ha quella pregnanza che il mondo manifesta all'imbrunire, quando le cose, prima d'oscurarsi, esalano dei bagliori cromatici ancor più saturi che durante il giorno, ben più intimi e segreti. Il colore femminile non è tintura epidermica, ma promana dall'interno come qualità intrinseca di vita e di coscienza. Il Surrealismo della pittrice non è affatto mentale, essendo purificato da ogni astuzia arrogante; è originato dal cuore, perciò è morbido e rotondo, e insieme naturale, rendendosi esistenzialmente efficace ed evocativo. Coinvolge lo sguardo a penetrare un bosco incantato, dove nel plenilunio danzano sacerdotesse estatiche, mentre tutt'intorno la vegetazione partecipa al rito con sgargianti fioriture, e frutti gravidi di succhi vitali, pronti ad essere colti. La donna è regina di questo regno d'anima, pulsante e magico; nello specchio della pittura si svolgono le vivide immagini dell'incantatrice: divinità femminili, profondamente umane, che risplendono sorrisi di Monna Lisa; sirene annegate nel languore sino alla saggezza; animali totemici; paesaggi dell'oltrespazio. L'opulenza animica delle varie figure è nutrita dalla maternità universale di Pachamama, la Madre Terra; per questo, anche se solitarie, sono sorrette da un sentimento di corale rispondenza. 

La meditazione dell'artista testimonia tutto ciò con purezza, nel qui-e-ora che accende il fuoco innocente della visione; tale Eros feconda il grembo della Vita e dell'Arte, partorendo il fantastico. Tutto appare fermo, colto nell'attimo con ieratica presenza, eppure internamente fluido, alchemicamente mercuriale. Julliet Ramirez Hernandez si è spinta a fondo, sino a conoscere la più profonda natura di ogni artista: l'essere veggente e capace dei segreti poteri della creazione. La sua opera è ricca di possibili richiami alla grande pittura dell'America Latina. Ad esempio, troviamo assonanze con i quadri di Frida Kalho, essendo parimenti una pittura fantasmagorica di donna, riflessione intima di sé che è colma di umori e sentimenti femminili. Tuttavia il senso tormentato del dramma, portante nella riflessione creativa di Frida, è stato maggiormente risolto, superato meditativamente al di là dei retaggi spinosi dell'io. In virtù di tutto questo, l'arte di Julliet è un'occasione di celebrazione e magia.

domenica 14 novembre 2010

Satvat per Vincenzo Di Biase

Contemplando i quadri di Vincenzo Di Biase, ho veduto fioriture del magma metaforico del “sentire”, viaggiante sull'ala di un'alta ispirazione; vi ho trovato diagrammi ed indicazioni attive di vastità lineari, comunque narrazioni dell'impalpabile tessuto dell'anima. Senza le obbligazioni della memoria, bensì con la sincera rispondenza del qui-e-ora. Mi sono innamorato del fremito armonico ed inesauribile, riconoscendovi il respiro misterioso della Vita che muove albe e tramonti. 

Si va naturalmente a ritroso sui percorsi dell'Arte, sino all'epica rottura della forma operata, ad esempio, da Pollock. Ma quel caos, allora devastante, ha trovato nella pittura di Di Biase un'evoluzione naturale, agganciandosi a codici arcanamente numerici che ne informano fluidamente il tessuto plastico. Nei trascorsi del suo insegnamento matematico, l'artista deve aver respirato l'infinitezza pitagorica, trasfondendola quindi nell'Arte con una visione vertiginosa eppure sostanzialmente esatta: non si soccombe alla grandiosità immanifesta, ma si resta coesi nella rispondenza minuta del particolare. La saggezza numerologica si esprime con modulazioni calligrafiche che potrebbero richiamare i writing di Tobey, ma in modo più bacchico. Vi è comunque presente il sapore del Mito, che rinunciando all'illusione della forma si trova ad essere ancor più possente. 

Tra gli scorci mistici di questa pittura, ammicca il fugace sorriso del vate; ciò esulta nelle danze del pennello, manifestandosi con invenzioni di luce, espanse con onde armoniose ed imprevedibili; tuttavia resta incognito, celandosi proprio nei fasti dell'immaginazione. L'ho visto giocare con se stesso – in puro divertimento – aprendo miriadi d'occhi rotondi che richiamano la cauda pavonis achimistica. In questa pittura positiva l'anima si rinfranca, riconciliandosi al di là dei limiti dello spazio-tempo; visitando il dentro e il fuori, con sensualità sacrale, si incanta in aggregazioni cromatiche che evidenziano i poteri del Numen e l'annunciazione del principio cosmico dell'Unità. 

E come il Principio Unico si divide nella Creazione, formando Yin e Yang, il Femminile e il Maschile, nello stesso modo l'opera di Vincenzo Di Biase mostra due volti diversi e polari, simbolicamente rappresentativi di anima e animus. In alcuni dipinti assistiamo a sequenze numeriche del colore e dell'esplosione della forma, a un'impressione di stimoli costruttivi, seppure eversivi, che vengono programmaticamente inquadrati. Invece in altre opere ci immergiamo pienamente nei flussi femminei delle acque vitali, ove tutto trasmuta con mercuriale languore, e in cui la numerologia è superata, mostrando puramente la forza ingovernabile che vi era contenuta. In entrambi i casi, la logica è sublimata in filosofia senza nome, che anticipa se stessa nel mistero primigenio dello stupore. 

Credo che l'aspirazione segreta di questo artista sia quella di riuscire a fondere insieme, in se stesso quanto nel suo lavoro, la duplice ispirazione dello Yin e Yang, con una comprensione cabalistica delle leggi arcane da cui è fondata la Creazione, al fine di tornare spiritualmente alla Sorgente. Questo sogno intuitivo appartiene ad ogni essere umano, acceso dalla scintilla divina che tende a realizzare nell'uomo la stupefacente ricchezza della propria Presenza.

sabato 13 novembre 2010

Satvat su Salvador Dalì

Salvador Dalì - Natura morta vivente

La ricerca artistica di Salvador Dalì è stata quella della bellezza assoluta, mediante la somma esaltazione del genio. Può sembrare strano, viste le immagini inquietanti con cui ha animato i suoi dipinti; ma non ha adorato la Venere divina e risplendente, piuttosto la statua mozzata della Venere di Milo, poiché in quella drammatica incompiutezza ha trovato l'arbitrio di ogni possibile invenzione. La sua lucida follia non si è fermata sulla copertina patinata dell'estetica, né ha aspirato al conforto del sogno spirituale, ma ha cercato altro: il martirio artistico da cui ha inteso trarre una rinascita inconsueta. 

Non è stato compassionevole, Dalì, men che mai con se stesso; e in fondo è questa la sua crudele bellezza, potrei dire il suo glorioso errore. Ha cercato il senso ultimo dell'arcano esistenziale nel pathos sovrano: non ha odorato la rosa, tanto elevata da parere un miraggio, ma ha affrontato le spine, più vicine alla Terra, esponendo i propri punti più sensibili con l'orgoglio di un martire auto-santificato. Si è volontariamente crocefisso sull'asse verticale dell'Arte, come il Cristo di un suo famoso quadro, ma approfondendo l'abisso ed esibendo narcisisticamente le ferite pullulanti della propria immaginazione. Da tale posizione estrema ha indagato gli anfratti oscuri ed eversivi della psiche, ponendo i fantasmi dell'inafferrabile in piena luce; questi sono inchiodati alla tela, rantolano negli spasmi a loro inflitti dall'esposizione impudica allo sguardo, perché il pittore ha dissipato le nebbie in cui si agitavano imprendibili e soggetti ad evoluzione. 

Salvador Dalì ha pietrificato il mercurio dei filosofi, per eviscerarlo. Che vi ha trovato? Germi mitologici al momento della muta, fermentazioni erotiche subliminalmente paranoiche, discordanze di saggezza, eroismi illogici e funesti. Tuttavia il pittore cercava un diverso e più alto disegno, scendendo agli inferi con totalità per far sì, come disse lui stesso, che la sua mano fosse guidata da un angelo. Se è vero che il Divino s'incontra più facilmente guardando con intensità nei recessi della Vita, che non nell'astrazione volta idealisticamente al Cielo, è anche vero che in questo si deve trascendere se stessi, divenendo pienamente empatici. Invece Dalì era traboccante di sé, ma è stato comunque premiato, investito dalla luce fosforica dell'Angelo Caduto. Dico questo su un profilo affatto religioso, bensì puramente simbolico e misterico: è di Lucifero una luminosità impietosa, che espone forzosamente senza l'abbraccio, quindi senza possibilità di comprensione. Così è anche il caso di una spaziosità glaciale e metafisica della solitudine, moltiplicata sistemicamente per contenere il distacco sprezzante dell'ego. L'artista ha esemplificato tutto questo al più alto grado, applicando a dismisura una galleria di specchi distorcenti in cui compiacersi degli ingegni ossessivi della mente. Luciferina è infatti la natura delle sue contemplazioni, un voler farsi Dio arbitro dell'accadere; con tale orgoglio ci ha mostrato il capriccio di leggi cosmiche trascendenti, così come ha potuto intenderle facendosi, più che uomo, artista. 

Ma a mio parere è rimasto uno spettatore soverchiato, attirato per gravità nel baratro caotico della creazione; in ciò si è difeso, con innegabile genio, a colpi di pennello, facendosi scudo dipingendo le immagini dell'Ombra. Con più umiltà si può lasciarsi portare nel gorgo, sino al non-essere; quando l'artista è scomparso, si sprigiona il profumo della rosa.

SALVADOR DALI': IL SOGNO SI AVVICINA
MOSTRA A PALAZZO REALE - MILANO
22 Settembre 2010 - 30 Gennaio 2011

martedì 9 novembre 2010

Satvat per Sigawayan

Sigawayan - Risveglio dell'Apocalisse I - II (dittico)
Nella pittura di Sigawayan (nome d'arte di Wong Wing Kuen) si mescolano i fluidi artistici dell'Oriente e dell'Occidente. Tali correnti impetuose, incontrandosi, originano mulinelli fortemente cromatici e spume sognanti; tuttavia sono effettivamente sincroniche ed integrate nel tessuto meditativo dell'Arte, in un modo che supera le contraddizioni apparenti e svela l'Unità segreta. Così la provenienza orientale dell'artista risulta tutt'altro che esotica, piuttosto porta un arricchimento della visione che promana dall'Interiore. 

Mentre in Occidente la pittura classica guardava fuori e in alto, perfezionando il disegno a imitazione della Natura e, spiritualmente, delle immagini della Religione e del Mito, l'Estremo Oriente sfumava pittoricamente nell'indeterminabile, portando lo sguardo all'interno, in una soggettività tanto profonda da raggiungere meditativamente l'arcano della matrice. Dall'epoca moderna, l'Arte occidentale ha celebrato le contraddizioni dinamiche, secondo un'epica propulsiva che ha inteso conquistare un nuovo senso, esistenzialmente spiritualizzato; però, come ho ampiamente discusso nel mio libro Il Tao della Pittura, tale eroico impegno può costruire un colosso dai piedi d'argilla, o un astruso, se la creazione non è interiormente sostenuta dalla consapevolezza e dalla meditazione. Per questo molti grandi pittori del Novecento si adoperarono a riscoprire in loro stessi, e a ricreare, le lezioni meditative della Tradizione orientale, meno canoniche e più focalizzate sull'esperienza individuale. 

Accogliendo globalmente tale eredità artistica, anche in virtù del proprio vissuto tra Oriente e Occidente, Sigawayan ponteggia le due Culture rispondendo all'attuale melting-pot culturale in cui si confrontano e fermentano i nuovi stimoli dell'Arte. Nel corso della sua lunga permanenza a Firenze, egli ne ha esplorato gli stimoli più pregnanti, apprendendo persino la pittura mistica delle icone, ma al contempo ha mantenuto la fierezza dell'identità e la libertà della ricerca espressiva. Il suo mondo pittorico si dischiude con inflorescenze vivamente cromatiche, che ci ricordano l'amore degli antichi pittori estremo-orientali per i fiori, e la strutturazione plastica dei suoi dipinti riverbera talvolta gli intendimenti della pittura cinese del paesaggio, che concerta i diversi elementi nell'armonizzazione di Yin e Yang; altre volte degli inserti in bianco e nero richiamano la ricchezza tonale della pittura ad inchiostro. 

Il pittore segue l'antico precetto orientale di dipingere nel cerchio, simbolo onnicomprensivo del Tao, perciò le sue forme si avviluppano, quasi botanicamente, in modo fluido e circolare, con un metamorfismo dinamico da cui evolvono perennemente. Tale circolarità, che è espressione della virtualità armonicamente creativa dell'energia interiore, è stata scoperta in Occidente dall'Arte Moderna, e da questa applicata in modo irrazionalmente eversivo; molti artisti moderni hanno con ciò rinnegato il rigore, liberando il Creativo feminino, selvaggio e iconoclasta. Perciò contemplando l'opera di Sigawayan possiamo trovare delle similitudini con le astrazioni organiche di Arshile Gorky, o con quelle di Andrè Masson, e persino con i deliri cerchiati di Co.Br.A; ma il distacco orientale dell'artista lo mantiene in ineffabile equilibrio. Vi è comunque un pathos primigenio, e anche la contemplazione dell'abisso, ma ogni sentore d'annichilimento contiene coscienziosamente e gioiosamente il seme della rinascita, dell'irrefrenabile mutamento. 

La qualità estremo-orientale di Sigawayan è soprattutto nel suo essere pittore della linea, con la quale ricama i suoi fastosi universi, e nobile seguace dell'impulso calligrafico. Il tesoro spirituale della calligrafia orientale è il protagonista assoluto di alcuni dipinti, in cui effettua componimenti che sono per noi linguisticamente incomprensibili, ma segnicamente seducenti; tale fitta scrittura è posta come un velo a ricoprire la profondità sacrale della tela, da cui traspare il volto di un Buddha assorto in meditazione. In altri interessanti dipinti, la calligrafia disegna delle immagini antropomorfe e ieratiche; poste su uno sfondo assolutisticamente aureo, queste figure adorano una sfera centrale, pulsante e madreperlacea, che è rappresentazione del Tutto. Queste opere, profondamente iconiche, sono di formato quadrato, simbolo della Terra che è complementare alla circolarità della sfera, simbolica del Cielo. La linea informa armoniosamente le figure accovacciate, imprimendo una vibrazione intima e devozionale.