Ho scritto molto - nei libri già pubblicati da importanti Case Editrici - e continuerò a scrivere sull'Arte, rintracciando il nesso spirituale che la realizza come profonda riflessione dell'esperienza umana. Negli anni ho anche messo la mia penna a disposizione degli artisti, esprimendo con chiarezza meditativa i loro messaggi.

Nella crisi attuale, l'Arte deve assumersi la responsabilità di approfondirsi, divenendo il veicolo creativo ed esemplare del nuovo; per questo diviene ancor più rilevante la sua capacità di comunicazione. In tale prospettiva, anche la scrittura sull'Arte assume un nuovo significato: cessando d'essere un'esercitazione di mestiere, deve saper esprimere la vitalità intuitiva che può raggiungere il cuore delle persone, per resuscitarlo col sentore di ciò che è vero.

In questo sito intendo donare visibilità agli artisti che hanno deciso di avvalersi della mia scrittura per presentare il loro lavoro. Inoltre presento le mie meditazioni su importanti artisti storici.


SATVAT E' ARTISTA VISIVO E SCRITTORE

SATVAT E' ARTISTA VISIVO E SCRITTORE
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lunedì 13 dicembre 2010

Satvat su Odilon Redon

Odilon Redon - Budda - 1905-10

Per riflettere sul significato del colore nella Pittura, possiamo avvalerci della vicenda, umana ed artistica, di Odilon Redon. Egli ebbe un’infanzia solitaria, da cui contrasse incubi ed ossessioni che lo accompagnarono per molto tempo. Il suo carattere introverso lo sospinse ad un’avventura fortemente introspettiva ed “in nero”; infatti, per molti anni si dedicò quasi esclusivamente a disegnare con la grafite ed il pastello nero. Queste opere mostrano temi ricorrenti, oscuri e fortemente simbolici: enormi ragni ghignanti, teste mozzate dal martirio ed offerte su vassoi, bulbi oculari fluttuanti e filamentosi, che galleggiano in notti soffocanti. L’intima sofferenza lo portava ad indagare nell’interiorità, per fronteggiare i propri incubi, percorrendo ciò che Jung ha chiamato un “percorso d’individuazione”. I suoi mostri dipinti sono fortemente significativi: il ragno è il tessitore dei labirinti tortuosi della psiche, belva insidiosamente allusiva che il pittore voleva vincere tramite la forza redentrice del pensiero, simboleggiato dalle numerose teste senza corpo che hanno popolato le sue opere; l’occhio, spesso raffigurato volto in alto come a cercare la salvezza di una visione superiore, è lo spietato veicolo di una “opera al nero”, di un’inesausta indagine a cui tutto va sacrificato, per cui l’uomo giunge a trasformarsi in parossistico ciclope. 

E questa totalità diede i suoi frutti: dopo anni di volontaria reclusione nel “nero”, Redon fu in qualche modo fuori dal tunnel, ed approdò finalmente al colore. Qualcosa era accaduto, qualcosa che, a mio parere, i critici non hanno saputo capire, ma che ha favorito una svolta radicale. L’intuizione mi dice che la sua caccia, proprio perché così totale, ha avuto un esito inaspettato: ha portato l’artista, ben oltre le sue stesse intenzioni, al di là del mentale, almeno per un momento. Il sorgere spontaneo della meditazione lo ha rapito nel colore. Tale svolta è segnata dall’opera “Gli occhi chiusi” (1890); da questo quadro si intuisce che il pittore è totalmente preso all’interno, e morbidamente arreso al misterioso flusso dell’Interiore. Da allora non ci sono più stati occhi ansiosi fuori dalle orbite, mai più i mostri paradossali della mente, ma piuttosto creature alate, vaporosità cromatiche, morbide figure nascenti dal colore, “acquari del sogno”, e persino un Buddha vicino all’albero del bhodi. Può darsi che Redon abbia vissuto qualcosa di simile a ciò che in Oriente viene chiamato satori, un episodio di illuminazione temporanea: per un momento il sipario della mente si apre, e si viene fecondati dalla bellezza del Reale. Da ciò giunge una straordinaria e nutriente energia, che il pittore si è prodigato a manifestare con i colori più vivaci. Il famoso quadro “Il ciclope” (1898–1900) sembra confermare la mia intuizione; in esso vediamo un ciclope che appare mansueto, ben più pacificato di quelli dei precedenti disegni “noir”, il quale osserva dall’alto una figura umana, forse androgina, adagiata su un letto di fiori. L’occhio del pensiero sta osservando qualcosa che stenta a capire, qualcosa che non è ancora compiutamente risvegliato; si avverte lo stupore, persino incredulità; eppure pare quasi di sentire il profumo di quella culla floreale, profumo che l’artista aveva avvertito, per cui non poté dubitarne. In altri lavori egli ripropose il tema degli occhi chiusi, ma con un evidente sentimento di nostalgia, come se non riuscisse a ricontattare quella straordinaria Ispirazione. Il satori è passeggero, è un assaggio che scatena la fame dell’Essenziale; probabilmente seguendo questa fame del Trascendente, i quadri successivi si fecero simili a miraggi inafferrabili, sublimati in cromie trasognate. 

Poi, nell’ultima fase della sua opera, Redon pare quasi aver sperso la speranza, ed un’ultima enfasi del ricordo di quella Luce prese le sembianze dei molti mazzi di fiori, soggetto allora preferito, posti in vasi che sembrano voler mantenere viva quella memoria, di cui i coloratissimi fiori sono il simbolo. In questi quadri, si coglie una nostalgia struggente, venata di rimpianto; il vaso (forse simbolo della mente che ricorda) pare spesso quasi indegno dei fiori che contiene, e gli sfondi tornano talvolta a popolarsi di ombre. Emblematico di ciò è “Ranuncoli in un vaso blu” (1914): il vaso blu, colore contemplativo e animico, contiene fiori rossi, gialli e rosa, dei quali uno è caduto; una grande ombra lo inghiotte da destra; tutta la composizione risulta fortemente sfocata, come se fosse prossima a scomparire.

Tratto dal libro di Satvat IL TAO DELLA PITTURA - Bastogi, 2009

martedì 30 novembre 2010

Satvat per Tarshito


Il Vaso e la Foglia - 2010. Realizzazione/ Made by: Cristiana Fasano
Struttura in metallo e ceramica/Structure in metal and ceramic
diam. max. cm.108x255h
Tarshito (Nicola Strippoli) ha una particolare figura di architetto, designer e performer. Il suo impegno creativo segue percorsi propri nel mondo dell'Arte, come un torrente che esplora territori inaspettati e raccoglie affluenti divenendo più forte, trasportando nel suo scorrere ispirazioni, esperienze e fragranze diverse, che gioisce nel condividere. C'è in Tarshito qualcosa di rinascimentale, quel sole dell'intelletto che porta mille semi a fioritura, elaborando un progetto intonato all'Anima Mundi che si sviluppa in un'officina di realizzazioni comuni, in cui molti artisti ed artigiani partecipano con i loro talenti, al di là di ogni supponibile barriera culturale. Quella del Tarshito Group è un'orchestra, una comunione d'intenti che trascende la solitudine dell'artista evidenziando che noi siamo il mondo. Noi siamo il mondo, e ciò implica responsabilità di consapevolezza, di creazione, e di unione. Comprendendo questo, non si legittimano le povertà individuali, né le lagnanze: c'è così tanto da esplorare, creare e condividere. 

Elaborare nuove visioni del mondo è l'alto compito dell'Arte, realizzabile con espressioni meditate ed ispirative. Se ciò si verifica, l'architettura intangibile dello Spirituale informa l'Architettura terrena, formando un mondo nuovo e più vitale. L'Architettura è etimologicamente e simbolicamente la scienza di fondare in Terra i pilastri verticali che richiamano il Cielo, ed ha in sé il senso del sacro, di una corresponsione tra la progettualità umana, le leggi della Natura, e la libertà ascensionale dello Spirito. E non è una questione di proporzioni, bensì una corrente d'ispirazione e costruzione che va dal Macro al Microcosmo, così come ci mostra la Natura che edifica con stessa perfezione ciò che è grandioso quanto l'organismo tanto minuto da essere invisibile allo sguardo. Perciò la magia di una cattedrale non è superiore a quella delle piccole architetture di cera di Tarshito, in cui il materiale organico e molle evidenzia l'imprimatur essenziale dell'impermanenza. Nella Vita niente è definitivo, tutto è nel flusso; e così l'opera d'arte che resta ferma, che dà un'impressione conclusa, non è affatto Arte, non essendo esistenziale. Di questo abbiamo esempi eclatanti, come l'eterno cantiere della cattedrale di Gaudì, inaugurata proprio in questi giorni ma formalmente libera da conclusione; in realtà ogni opera d'arte, che sia dipinto, o scultura, o qualsiasi cosa, deve mantenere una tensione dinamica, una vita interiore che sia pervasa dal flusso. 

Credo che proprio questa comprensione abbia ispirato Tarshito a elaborare con costanza il topos del vaso, oggetto aperto e ricco di riferimenti simbolici. Il vaso è femminile e sempre potenzialmente gravido, innanzitutto pregno di spazio. È un contenitore, ma in senso simbolico, non meramente funzionale: il suo compito è quello di valorizzare lo spazio, così come il corpo valorizza l'anima, permettendole di fare esperienze. L'accezione platonica del corpo come prigione dell'anima è infatti erronea e giunge ad essere negativa della Vita; tuttavia la percezione corporea, terrestre, deve restare aperta alla sommità per accogliere meditativamente la vastità, com'è nel vaso. Questo è vasus alchemico, ampolla in cui può compiersi il prodigio della Rivelazione. La sua materia è umile quanto preziosa, e Tarshito lo evidenzia con raffinate cesellature delle materie, con tessiture finemente cromatiche, con ricami simbolici, a volte con pennellate libere infuse di Zen. Il vaso è grembo della Natura, come lei ricco di espressioni mutevoli, di figure, di sogni poetici della Creazione; così è racconto e tangibile metafora del contenuto inesprimibile. 

L'artista stesso è vaso, piena rispondenza ricettiva quanto trasmissiva. Tarshito di ciò s'investe pienamente e, come ha detto egli stesso, si adopera nel cercare “nel crogiolo del sapere antico, della saggezza di sempre e portare tutto questo nell'Arte”.

giovedì 25 novembre 2010

Satvat su Henri Michaux

A mio parere, Henri Michaux non è stato un pittore; piuttosto un grande scrittore, che ha scritto anche con la pittura. In modo estremo, massimamente franco e disarmante. Comunque ai suoi dipinti ha riservato un posto speciale, nel giardino in cui ha coltivato i tesori dell'arte della scrittura. Stregato dalla calligrafia dell'Estremo Oriente, Michaux ha cercato il potere misterico delle matrici dei segni, quella virtù esoterica che, si diceva nei tempi antichi, aveva fatto fuggire i demoni, intimoriti perché con l'invenzione degli ideogrammi l'uomo aveva acquisito la supremazia su di loro. Ma i suoi segni sono antenati illogici degli ideogrammi, balbettamenti di un alfabeto non formato, mai pronunciato, antecedenti ad ogni idea ed alla stessa intenzione di comunicare.

Infatti l'artista non ha affatto inteso comunicare (per questo dico che la sua non è effettivamente pittura), piuttosto sperimentare in solitudine l'origine ancestrale del segno: le linee di frattura del dischiudersi dell'uovo del silenzio. Lo ha fatto scardinando ogni possibile riconoscimento linguistico, usando il pennello non per tracciare segnicamente un contenuto, ma per miscelare l'informe, e da questo trarre l'infinitesimo segnale di una genesi in atto. L'uso di sostanze psicotrope ha aiutato l'artista a scavallare la normativa del pensiero, sino all'agnosia in cui la mano viene mossa da un puro istinto del tutto impersonale. I suoi dipinti mescalinici non mostrano l'intervento di un pittore, appaiono piuttosto tracciati da insetti striscianti, da cadute di foglie tingenti, da polveri depositate; una magia del caso, ma di un caso tutt'altro che privo di senso, affine al Li con cui gli antichi taoisti definivano l'ancestrale saggezza universale che aveva venato la giada, o il legno.

Il caso agente nella pittura di Michaux è infatti molto meno casuale di tante sterili operazioni dell'Arte contemporanea, perché lì egli ha fortemente meditato, percependo l'armonia nascosta. Sfuggendo al desiderio di esibire e di conferire un arbitrario significato, egli ha assaporato il nulla sperimentando il minimo, e suscitato significato solo in virtù della propria onesta preghiera. Questa onestà, qualità sovrana di ogni vero artista, è ciò che maggiormente apprezziamo.

domenica 21 novembre 2010

Satvat per Francisco Zúñiga

Francisco Zúñiga è uno dei più grandi artisti contemporanei del Messico. Anni fa ho avuto il piacere di comporre per lui questo scritto, poco prima della sua scomparsa.
Francisco Zúñiga - Desnudo con manos a la cara, 1970

Contemplando l'arte di Francisco Zúñiga.

Nel tempio della Terra, le gambe tornite e salde delle donne sono colonne, piegate mai neppure sotto il peso del dolore. Nella resa sacrificale, la donna ha il dono innato della leggerezza e della fierezza che redime il destino.

Ho attraversato una galleria di ritratti e figure, primordiali come pitture rupestri – sagge icone dell'eterno divenire. Ho veduto nei volti anziani la freschezza indeturpabile della progenie, e giovani fanciulle antiche come le ere del mondo. Il Tempo in corsa s'impiglia nelle sottane, e progetta il futuro lasciando la canzone ardente della memoria.

Con stupore, ho veduto la maestà del ventre rotondo e pregno – impronta terrena dell'Infinito. Con stupore, vi ho ascoltato il ruggito interno del fuoco, e la frusciante, tiepida acqua della consolazione.

martedì 16 novembre 2010

Satvat per Julliet Ramirez Hernandez

Julliet Ramirez Hernandez - Cassandra Mistica
La pittrice venezuelana Julliet Ramirez Hernandez applica nelle sue immagini surrealiste un chiaro talento di “sognatrice”, nel senso sciamanico. Tale “sognare” spirituale è il mezzo per addentrarsi nei territori irrazionali e simbolici della Vita, nel misterioso Nagual delle correnti interiori, caotiche e irrefrenabilmente creative. Lo sciamano non pietrifica il flusso e il potere della visione con la mediocrità del senso comune, bensì ne cavalca con saggezza l'onda poderosa, traendone forze che sono normalmente inaccessibili. Julliet realizza questo compito con una sensitività squisitamente femminile, da Cassandra mistica, dipingendo una realtà onirica che necessita della Luna per rendersi manifesta. 

Intensa è la sua impressione del colore: ha quella pregnanza che il mondo manifesta all'imbrunire, quando le cose, prima d'oscurarsi, esalano dei bagliori cromatici ancor più saturi che durante il giorno, ben più intimi e segreti. Il colore femminile non è tintura epidermica, ma promana dall'interno come qualità intrinseca di vita e di coscienza. Il Surrealismo della pittrice non è affatto mentale, essendo purificato da ogni astuzia arrogante; è originato dal cuore, perciò è morbido e rotondo, e insieme naturale, rendendosi esistenzialmente efficace ed evocativo. Coinvolge lo sguardo a penetrare un bosco incantato, dove nel plenilunio danzano sacerdotesse estatiche, mentre tutt'intorno la vegetazione partecipa al rito con sgargianti fioriture, e frutti gravidi di succhi vitali, pronti ad essere colti. La donna è regina di questo regno d'anima, pulsante e magico; nello specchio della pittura si svolgono le vivide immagini dell'incantatrice: divinità femminili, profondamente umane, che risplendono sorrisi di Monna Lisa; sirene annegate nel languore sino alla saggezza; animali totemici; paesaggi dell'oltrespazio. L'opulenza animica delle varie figure è nutrita dalla maternità universale di Pachamama, la Madre Terra; per questo, anche se solitarie, sono sorrette da un sentimento di corale rispondenza. 

La meditazione dell'artista testimonia tutto ciò con purezza, nel qui-e-ora che accende il fuoco innocente della visione; tale Eros feconda il grembo della Vita e dell'Arte, partorendo il fantastico. Tutto appare fermo, colto nell'attimo con ieratica presenza, eppure internamente fluido, alchemicamente mercuriale. Julliet Ramirez Hernandez si è spinta a fondo, sino a conoscere la più profonda natura di ogni artista: l'essere veggente e capace dei segreti poteri della creazione. La sua opera è ricca di possibili richiami alla grande pittura dell'America Latina. Ad esempio, troviamo assonanze con i quadri di Frida Kalho, essendo parimenti una pittura fantasmagorica di donna, riflessione intima di sé che è colma di umori e sentimenti femminili. Tuttavia il senso tormentato del dramma, portante nella riflessione creativa di Frida, è stato maggiormente risolto, superato meditativamente al di là dei retaggi spinosi dell'io. In virtù di tutto questo, l'arte di Julliet è un'occasione di celebrazione e magia.

domenica 14 novembre 2010

Satvat per Vincenzo Di Biase

Contemplando i quadri di Vincenzo Di Biase, ho veduto fioriture del magma metaforico del “sentire”, viaggiante sull'ala di un'alta ispirazione; vi ho trovato diagrammi ed indicazioni attive di vastità lineari, comunque narrazioni dell'impalpabile tessuto dell'anima. Senza le obbligazioni della memoria, bensì con la sincera rispondenza del qui-e-ora. Mi sono innamorato del fremito armonico ed inesauribile, riconoscendovi il respiro misterioso della Vita che muove albe e tramonti. 

Si va naturalmente a ritroso sui percorsi dell'Arte, sino all'epica rottura della forma operata, ad esempio, da Pollock. Ma quel caos, allora devastante, ha trovato nella pittura di Di Biase un'evoluzione naturale, agganciandosi a codici arcanamente numerici che ne informano fluidamente il tessuto plastico. Nei trascorsi del suo insegnamento matematico, l'artista deve aver respirato l'infinitezza pitagorica, trasfondendola quindi nell'Arte con una visione vertiginosa eppure sostanzialmente esatta: non si soccombe alla grandiosità immanifesta, ma si resta coesi nella rispondenza minuta del particolare. La saggezza numerologica si esprime con modulazioni calligrafiche che potrebbero richiamare i writing di Tobey, ma in modo più bacchico. Vi è comunque presente il sapore del Mito, che rinunciando all'illusione della forma si trova ad essere ancor più possente. 

Tra gli scorci mistici di questa pittura, ammicca il fugace sorriso del vate; ciò esulta nelle danze del pennello, manifestandosi con invenzioni di luce, espanse con onde armoniose ed imprevedibili; tuttavia resta incognito, celandosi proprio nei fasti dell'immaginazione. L'ho visto giocare con se stesso – in puro divertimento – aprendo miriadi d'occhi rotondi che richiamano la cauda pavonis achimistica. In questa pittura positiva l'anima si rinfranca, riconciliandosi al di là dei limiti dello spazio-tempo; visitando il dentro e il fuori, con sensualità sacrale, si incanta in aggregazioni cromatiche che evidenziano i poteri del Numen e l'annunciazione del principio cosmico dell'Unità. 

E come il Principio Unico si divide nella Creazione, formando Yin e Yang, il Femminile e il Maschile, nello stesso modo l'opera di Vincenzo Di Biase mostra due volti diversi e polari, simbolicamente rappresentativi di anima e animus. In alcuni dipinti assistiamo a sequenze numeriche del colore e dell'esplosione della forma, a un'impressione di stimoli costruttivi, seppure eversivi, che vengono programmaticamente inquadrati. Invece in altre opere ci immergiamo pienamente nei flussi femminei delle acque vitali, ove tutto trasmuta con mercuriale languore, e in cui la numerologia è superata, mostrando puramente la forza ingovernabile che vi era contenuta. In entrambi i casi, la logica è sublimata in filosofia senza nome, che anticipa se stessa nel mistero primigenio dello stupore. 

Credo che l'aspirazione segreta di questo artista sia quella di riuscire a fondere insieme, in se stesso quanto nel suo lavoro, la duplice ispirazione dello Yin e Yang, con una comprensione cabalistica delle leggi arcane da cui è fondata la Creazione, al fine di tornare spiritualmente alla Sorgente. Questo sogno intuitivo appartiene ad ogni essere umano, acceso dalla scintilla divina che tende a realizzare nell'uomo la stupefacente ricchezza della propria Presenza.

sabato 13 novembre 2010

Satvat su Salvador Dalì

Salvador Dalì - Natura morta vivente

La ricerca artistica di Salvador Dalì è stata quella della bellezza assoluta, mediante la somma esaltazione del genio. Può sembrare strano, viste le immagini inquietanti con cui ha animato i suoi dipinti; ma non ha adorato la Venere divina e risplendente, piuttosto la statua mozzata della Venere di Milo, poiché in quella drammatica incompiutezza ha trovato l'arbitrio di ogni possibile invenzione. La sua lucida follia non si è fermata sulla copertina patinata dell'estetica, né ha aspirato al conforto del sogno spirituale, ma ha cercato altro: il martirio artistico da cui ha inteso trarre una rinascita inconsueta. 

Non è stato compassionevole, Dalì, men che mai con se stesso; e in fondo è questa la sua crudele bellezza, potrei dire il suo glorioso errore. Ha cercato il senso ultimo dell'arcano esistenziale nel pathos sovrano: non ha odorato la rosa, tanto elevata da parere un miraggio, ma ha affrontato le spine, più vicine alla Terra, esponendo i propri punti più sensibili con l'orgoglio di un martire auto-santificato. Si è volontariamente crocefisso sull'asse verticale dell'Arte, come il Cristo di un suo famoso quadro, ma approfondendo l'abisso ed esibendo narcisisticamente le ferite pullulanti della propria immaginazione. Da tale posizione estrema ha indagato gli anfratti oscuri ed eversivi della psiche, ponendo i fantasmi dell'inafferrabile in piena luce; questi sono inchiodati alla tela, rantolano negli spasmi a loro inflitti dall'esposizione impudica allo sguardo, perché il pittore ha dissipato le nebbie in cui si agitavano imprendibili e soggetti ad evoluzione. 

Salvador Dalì ha pietrificato il mercurio dei filosofi, per eviscerarlo. Che vi ha trovato? Germi mitologici al momento della muta, fermentazioni erotiche subliminalmente paranoiche, discordanze di saggezza, eroismi illogici e funesti. Tuttavia il pittore cercava un diverso e più alto disegno, scendendo agli inferi con totalità per far sì, come disse lui stesso, che la sua mano fosse guidata da un angelo. Se è vero che il Divino s'incontra più facilmente guardando con intensità nei recessi della Vita, che non nell'astrazione volta idealisticamente al Cielo, è anche vero che in questo si deve trascendere se stessi, divenendo pienamente empatici. Invece Dalì era traboccante di sé, ma è stato comunque premiato, investito dalla luce fosforica dell'Angelo Caduto. Dico questo su un profilo affatto religioso, bensì puramente simbolico e misterico: è di Lucifero una luminosità impietosa, che espone forzosamente senza l'abbraccio, quindi senza possibilità di comprensione. Così è anche il caso di una spaziosità glaciale e metafisica della solitudine, moltiplicata sistemicamente per contenere il distacco sprezzante dell'ego. L'artista ha esemplificato tutto questo al più alto grado, applicando a dismisura una galleria di specchi distorcenti in cui compiacersi degli ingegni ossessivi della mente. Luciferina è infatti la natura delle sue contemplazioni, un voler farsi Dio arbitro dell'accadere; con tale orgoglio ci ha mostrato il capriccio di leggi cosmiche trascendenti, così come ha potuto intenderle facendosi, più che uomo, artista. 

Ma a mio parere è rimasto uno spettatore soverchiato, attirato per gravità nel baratro caotico della creazione; in ciò si è difeso, con innegabile genio, a colpi di pennello, facendosi scudo dipingendo le immagini dell'Ombra. Con più umiltà si può lasciarsi portare nel gorgo, sino al non-essere; quando l'artista è scomparso, si sprigiona il profumo della rosa.

SALVADOR DALI': IL SOGNO SI AVVICINA
MOSTRA A PALAZZO REALE - MILANO
22 Settembre 2010 - 30 Gennaio 2011

martedì 9 novembre 2010

Satvat per Sigawayan

Sigawayan - Risveglio dell'Apocalisse I - II (dittico)
Nella pittura di Sigawayan (nome d'arte di Wong Wing Kuen) si mescolano i fluidi artistici dell'Oriente e dell'Occidente. Tali correnti impetuose, incontrandosi, originano mulinelli fortemente cromatici e spume sognanti; tuttavia sono effettivamente sincroniche ed integrate nel tessuto meditativo dell'Arte, in un modo che supera le contraddizioni apparenti e svela l'Unità segreta. Così la provenienza orientale dell'artista risulta tutt'altro che esotica, piuttosto porta un arricchimento della visione che promana dall'Interiore. 

Mentre in Occidente la pittura classica guardava fuori e in alto, perfezionando il disegno a imitazione della Natura e, spiritualmente, delle immagini della Religione e del Mito, l'Estremo Oriente sfumava pittoricamente nell'indeterminabile, portando lo sguardo all'interno, in una soggettività tanto profonda da raggiungere meditativamente l'arcano della matrice. Dall'epoca moderna, l'Arte occidentale ha celebrato le contraddizioni dinamiche, secondo un'epica propulsiva che ha inteso conquistare un nuovo senso, esistenzialmente spiritualizzato; però, come ho ampiamente discusso nel mio libro Il Tao della Pittura, tale eroico impegno può costruire un colosso dai piedi d'argilla, o un astruso, se la creazione non è interiormente sostenuta dalla consapevolezza e dalla meditazione. Per questo molti grandi pittori del Novecento si adoperarono a riscoprire in loro stessi, e a ricreare, le lezioni meditative della Tradizione orientale, meno canoniche e più focalizzate sull'esperienza individuale. 

Accogliendo globalmente tale eredità artistica, anche in virtù del proprio vissuto tra Oriente e Occidente, Sigawayan ponteggia le due Culture rispondendo all'attuale melting-pot culturale in cui si confrontano e fermentano i nuovi stimoli dell'Arte. Nel corso della sua lunga permanenza a Firenze, egli ne ha esplorato gli stimoli più pregnanti, apprendendo persino la pittura mistica delle icone, ma al contempo ha mantenuto la fierezza dell'identità e la libertà della ricerca espressiva. Il suo mondo pittorico si dischiude con inflorescenze vivamente cromatiche, che ci ricordano l'amore degli antichi pittori estremo-orientali per i fiori, e la strutturazione plastica dei suoi dipinti riverbera talvolta gli intendimenti della pittura cinese del paesaggio, che concerta i diversi elementi nell'armonizzazione di Yin e Yang; altre volte degli inserti in bianco e nero richiamano la ricchezza tonale della pittura ad inchiostro. 

Il pittore segue l'antico precetto orientale di dipingere nel cerchio, simbolo onnicomprensivo del Tao, perciò le sue forme si avviluppano, quasi botanicamente, in modo fluido e circolare, con un metamorfismo dinamico da cui evolvono perennemente. Tale circolarità, che è espressione della virtualità armonicamente creativa dell'energia interiore, è stata scoperta in Occidente dall'Arte Moderna, e da questa applicata in modo irrazionalmente eversivo; molti artisti moderni hanno con ciò rinnegato il rigore, liberando il Creativo feminino, selvaggio e iconoclasta. Perciò contemplando l'opera di Sigawayan possiamo trovare delle similitudini con le astrazioni organiche di Arshile Gorky, o con quelle di Andrè Masson, e persino con i deliri cerchiati di Co.Br.A; ma il distacco orientale dell'artista lo mantiene in ineffabile equilibrio. Vi è comunque un pathos primigenio, e anche la contemplazione dell'abisso, ma ogni sentore d'annichilimento contiene coscienziosamente e gioiosamente il seme della rinascita, dell'irrefrenabile mutamento. 

La qualità estremo-orientale di Sigawayan è soprattutto nel suo essere pittore della linea, con la quale ricama i suoi fastosi universi, e nobile seguace dell'impulso calligrafico. Il tesoro spirituale della calligrafia orientale è il protagonista assoluto di alcuni dipinti, in cui effettua componimenti che sono per noi linguisticamente incomprensibili, ma segnicamente seducenti; tale fitta scrittura è posta come un velo a ricoprire la profondità sacrale della tela, da cui traspare il volto di un Buddha assorto in meditazione. In altri interessanti dipinti, la calligrafia disegna delle immagini antropomorfe e ieratiche; poste su uno sfondo assolutisticamente aureo, queste figure adorano una sfera centrale, pulsante e madreperlacea, che è rappresentazione del Tutto. Queste opere, profondamente iconiche, sono di formato quadrato, simbolo della Terra che è complementare alla circolarità della sfera, simbolica del Cielo. La linea informa armoniosamente le figure accovacciate, imprimendo una vibrazione intima e devozionale.

domenica 31 ottobre 2010

Satvat per Elisabetta Vibhuti Limonta



E' da molto tempo che Elisabetta Vibhuti Limonta ha la forma a cuore come icona esclusiva della propria sperimentazione artistica. Sospetto che, in fase germinale, ciò sia iniziato già nel ventre materno, con la formazione del suo stesso cuore, con quella improvvisa scintilla di battito che congiunge ogni nuova vita alla pulsazione grandiosa e corale del Vivente. Deve aver conservato quel ricordo ancestrale nel silenzio, sino a che lo ha ritrovato - certamente con sorpresa! - nella danza del suo pennello. Come in un satori, un'illuminazione istantanea, lei ha ricordato, e da allora ha moltiplicato le pulsazioni del cuore in infiniti quadri. Infatti vedo la sua entusiasta riproposizione tematica come lo scandire dei battiti multidimensionali del Cuore Unico, simbolo universale del miracolo d'Amore che origina e preserva il Creato. L'artista mi ha raccontato di concepirlo come un immenso cuore di cristallo in formazione nel centro della Terra; un'immagine bella e importante, poiché solo riconoscendo il flusso d'Amore che ci sostiene, che ci ricongiunge tra noi e in comunione con il Tutto, riconnettendoci alla Madre Terra, potremo sanare la nostra disperazione di orfani volontari. Tale impegno sul piano sentimentale, naturalista ed ecologista, si rispecchia particolarmente nei cuori disegnati come foglie, come in quelli segnati da una matericità terragna, o resi fluidi da un turbinare azzurro che riecheggia, più ancora che in una conchiglia, la sonorità occulta dell'Oceano.

In ogni quadro Elisabetta Vibhuti dipinge il proprio cuore, che non è solo suo poiché il cuore non ha un senso privato, esclusivo, ma esiste per condividersi, e glorifica l'insieme. Cuore che è speranza, promessa, ricerca, indagine introspettiva, rivelazione, attraversando tutto l'arcobaleno delle emozioni, delle immagini, dei più reconditi pensieri. Proprio come un cuore di cristallo, il lavoro dell'artista è ricco di sfaccettature che rilucono prospettive differenti, dal concettuale, espresso particolarmente nelle opere polimateriche, sino al puro lirismo pittorico. Ho il piacere di conoscere l'artista e la sua opera da diversi anni, così ho potuto testimoniare lo svolgersi inesausto del filo della sua ricerca, senza che si sia mai spezzato o si sia annodato in una stanca ripetizione; ciò ha originato quasi un labirinto di immagini sincrone l'una all'altra, eppure dissimili, preziose e perfettamente autonome. La chiave di quel labirinto è in noi stessi: quel cuore, realizzato dalla pittrice con così tanto sentimento, contagia la nostra intima sorgente d'amore, spesso assopita, per rivitalizzarla.

Immagino che la segreta speranza di Elisabetta Vibhuti sia che il suo cuore, e i cuori di noi tutti, si colmino così tanto d'Amore da esplodere, annullando l'illusione dei confini che ci restringono nell'egoismo. Ho visto i suoi cuori farsi sempre più gonfi, dilatati, occupare via via il massimo dello spazio restringendo il margine del quadro; in tal modo annunciano l'auspicio dell'imminente esplosione. Ma non con superficiale ottimismo. Pur se spesso sono trasfigurati nell'enfasi cromatica che li esterna, mantengono il patrimonio di un'indagine viscerale, di una sofferta meditazione del vissuto. Ciò appare nell'intima pulsazione del cuore stesso, ma anche nel rapporto dialettico tra questo e lo spazio che lo contorna, mai casuale nella scelta e nella tessitura cromatica. La comprensione drammatica dell'artista, esercitata nel rapporto tra il dentro e il fuori, è essenziale per concepire il vero valore del suo sogno, per dargli corpo e radice. Eros e tanathos sono le due facce del mistero del vivere, ma è l'Amore che ineffabilmente le governa; e in definitiva, per essere capaci di amare davvero, deve morire quell'ego che sancisce la separazione. Riguardo a questo, è emblematico un recente dipinto che, con la polarità fondamentale del bianco e nero, presenta un cuore contenente un teschio: non un monito tombale, tipo vanitas,bensì un invito alla trascendenza.

Artista del nostro tempo, Elisabetta Vibhuti Limonta privilegia un'icona che è fuori dal tempo, ma con un linguaggio contemporaneo che esercita le contraddizioni apparenti, e materiali a volte sorprendenti.

Satvat per Corrado Nucci e Valter Ambrosini

Mostra: ANGELI SUONATORI IN CONCERTO

Satvat per Corrado Nucci

Esposti agli elementi, gli alberi danzano e risuonano. La loro stessa sostanza è armonica, perfetta per costruire strumenti musicali. Scultore del legno, Corrado Nucci ne ascolta le vibrazioni interiori che gli rivelano qual nume si cela nella materia. Allora, la passione dell'artista si prodiga a liberarlo nell'epifania della forma, separando ciò che è vitale, ed ha significato, dalle scorie. I “legni-parlanti” di Nucci ci mostrano che la forma dell'Arte non è arbitraria, bensì ha radici nell'Essere. Infatti lo scultore non crea dal nulla, da uno sterile sogno, piuttosto, come diceva Gaudì, prosegue l'opera creativa della Natura. Realizzando che l'Arte è luogo di incontri straordinari, Corrado Nucci edifica un bosco di personaggi. Sono figure incise, a tutto tondo, come da un pentagramma universale; dall'immaginifico spartito dei propri corpi, traggono echi di musiche terragne, componendo un concerto. Il suonatore di flauto evoca la magia silvestre, che i suoi compagni eretti elevano al Cielo, proprio come fanno gli alberi. Entrando in questo bosco incantato, assaporiamo il senso mitico e corroborante della Natura.



Satvat per Valter Ambrosini

Pittura e Musica, come intuì Kandinsky, sono linguaggi più che assonanti, poiché entambe fondano la loro magia su vibrazione, tonalità e ritmo d'espressione. La Pittura compone figurando degli accordi visibili che provocano in noi un'intima risonanza, mentre la Musica fa lo stesso con una danza invisibile, senza lasciare traccia. Così, facendo un omaggio pittorico alla musica, Valter Ambrosini evoca un tracciato saturo di riflessioni con pennellate sicure; il pittore ritrae dei musicisti che sono intenti nella vertigine armonica del jazz, mostrando quasi un'epica di passione, suono e umore, fenomeno pienamente umano, liberatorio e dionisiaco. Contemporaneamente, egli associa a questo la sua controparte invisibile, riferita ad un piano angelico che è complementare, in senso archetipico, a quello umano. Gli angeli musicisti, ripresi dal Giudizio Universale del Signorelli, affiancano i musicisti jazz, pur in modo ieratico, distante. La loro musica celestiale è inudibile all'orecchio, tuttavia l'intuizione dell'artista rivela che denso e volatile si rispecchiano, tanto che quei salmi d'adorazione angelica possono incarnarsi attraverso l'ispirazione umana. Certamente, l'uomo traduce quell'ispirazione trascendente col proprio calore, in modo dinamico, coinvolgente e persino orgiastico; ma, a ben vedere, è la stessa musica, lo stesso inno di lode alla Vita, che può essere etereo quanto ruggente, manifestando la bellezza in modo diverso. Libera dal moralismo, poiché profondamente vera nel proprio sentire, l'Arte annuncia che non vi è un'incolmabile distanza, che la vetta e l'abisso possono incontrarsi in un'armonia ineffabile, che ha il sapore salvifico dell'Unità. Per questo, dopo aver sognato nove tele nel blu celeste e pacificante, Valter Ambrosini non omette d'infiammare un'opera nel rosso, un richiamo apparentemente infero che invero serve a stabilire un bilanciamento, essendo un espediente alchemico che richiama all'unicità del Tutto.

Satvat su Futurismo/Presentismo

"FUTURISMO/PRESENTISMO" - Mostra svoltasi a Orvieto

In occasione del centenario del Futurismo, ho ideato il progetto di questa mostra, a cui hanno aderito numerosi valenti artisti del territorio orvietano. Riporto qui sotto le riflessioni che ho scritto per l'occasione.


All'inizio del '900 il Movimento Futurista accese la miccia di un radicale fermento innovativo. Lo fece con indomabile orgoglio virile: concentrando l'energia sino al punto critico in cui essa deflagra esplodendo; amplificando gli stimoli sensoriali tramite una percezione simultanea, capace d'elaborare sinergicamente differenti attività spazio-temporali; celebrando il dinamismo estremo, il tecnologismo avveniristico, il clamore, l'attrito, l'antigrazioso. Nell'Arte ha osannato i lampi vividi del colore ed una geometrizzazione proiettiva che ha saputo descrivere la multidimensionalità del panorama esistenziale, concependo forme guizzanti con cui ha narrato eroiche imprese d'uomini, di metropoli e di macchine rombanti. Si immaginava che, sotto tali colpi d'ariete, il mondo di allora, ritenuto decadente poichè stantio e convenzionale, non avrebbe potuto reggere; dalle sue macerie sarebbe sorta la "ricostruzione futurista dell'Universo". Un mondo totalmente nuovo, giovane e purificato dal vecchiume che, per ingannare le coscienze, si imbellettava con vuoto romanticismo. Osteggiando il "chiaro di luna", il Futurismo preferì il lume a gas e le folgori dell'elettricità, complici di visioni disincantate e tuttavia fantasmagoriche, poichè orientate alla vertigine del progresso. Ogni nuovo traguardo conquistato, ed ogni scoperta della Scienza, contribuivano a rafforzare il mito progressista, che trovava ragione nel fervente processio d'industrializzazione, il quale prometteva più lavoro e più benessere. Noi, che abbiamo tracannato il calice del progresso sino alla feccia, scoprendone infine l'amarezza, possiamo vedere come le profezie futuriste siano state tradite. Mentre il Futurismo incoronava l'individuo come libero creatore, la logica imperativa del profitto non ha rispettato nè l'individuo, nè i popoli, nè la Natura. Sul progresso ha regnato un Sistema che ci ha voluti massimamente passivi, docili produttori e consumatori obbedienti. Addormentandoci nel consumismo, abbiamo spento in noi la passione perciò, contemplando l'Arte Futurista, non possiamo che domandarci dove siano finiti quell'edonismo vitale e quella fierezza, ed il fervore innovativo, la sprezzatura, l'ottimismo. Nel centenario della nascita del Futurismo, oltre alla sentita celebrazione di quest'arte straordinaria, ci troviamo a riflettere su tutto questo. In tal senso hanno operato gli artisti che partecipano alla mostra FUTURISMO/PRESENTISMO as Orvieto, in questa terra umbra di cui furono figli alcuni dei grandi pittori futuristi, come Gerardo Dottori, Alberto Presenzini Mattioli, Alessandro Bruschetti, Leandra Angelucci Cominazzini, ed altri. Gli artisti presenti non si sono limitati ad un'operazione della memoria, bensì hanno riallacciato quel filo elettrico con cui i futuristi condussero tanto impeto propulsivo e tante scintille creative. Da ciò hanno tratto una profonda meditazione sul presente, resuscitando quell'entusiasmo ineffabilmente giovane che è vera virtù dell'animo umano. Oggi come allora, necessitiamo di una nuova visione del mondo, che possa riaccendere la speranza. Imparando dagli errori commessi, dobbiamo ricercare in noi stessi la sorgente primeva ed insopprimibile dell'energia vitale, trovando il coraggio e la determinazione per percorrere strade innovative. Tiranneggiando la Natura, ci siamo spersi ed abbiamo abdicato alla nostra identità autentica, rendendoci dolorosamente orfani. Se il Futurismo ci aveva ubriacati di velocità, facendoci sognare un meccanismo perfetto e sovrano, capace di alchemizzare al massimo grado la Natura, il Presente ci invita a meditare sulle nostre più intime risorse, per imparare che possiamo e dobbiamo integrarci creativamente con la Natura stessa.

Satvat su Vincent Van Gogh

Vincent Van Gogh - I cipressi - 1890
MOSTRA AL VITTORIANO DI ROMA
Van Gogh:Campagna senza tempo e città moderna.

Prendendo lo spunto dalla mostra romana su Van Gogh, torno a parlare di questo artista straordinario, che ho citato su molti dei miei libri. In lui si sono concretizzati tutti i sogni indomiti, le ispirazioni celesti e infernali, i conflitti, le intuizioni delle forze segrete delle materie, le vertigini ispirate che appartengono ad ogni artista. Van Gogh ha vissuto tutto questo con coraggio, catarsi primordiale e sacro tremore, pagando un pesante tributo all'allora nascente individuazione dell'individuo/artista; tuttavia la sua opera, pur tragicamente carnale, ha trovato la via di un'ascesi che tuttora commuove ed insegna. Non come sogno spiritualista, bensì come intensa alchimia che ha approfondito con forza le viscere dell'uomo quanto della materia pittorica; lì il pittore ha frugato, rovistando le scorie sino a trasfigurarle nella luce. Per questo la sua pittura non si è spenta, ma cova come brace sulla tela, sensibile ad ogni alito contemplativo per rinfocolarsi e sprizzare meraviglia.

La pittura di Van Gogh ha vissuto profondamente il suo tempo, mettendo radici nella pietra lavica, con tenacia inaudita e disperazione, ma ciò che egli ne ha tratto è un singulto della visione che ha trasceso il tempo, divenendo immortale. E profondamente gioiosa, nonostante tutto, mostrando il tesoro irrinunciabile dell'arte, che nessun artista deve mai dimenticare. Allora, agli albori dell'Arte Moderna, quel fulgore materico e veritiero, gettato dal pennello, è stato ritenuto rozzo dai benpensanti che volevano principalmente anestetizzarsi nell'arte, sentendosi rassicurati dall'estetica tradizionale; ma quella forza primigenia, avulsa dai compromessi, era una pulsazione di vita che niente ha saputo soffocare. Questo apprezziamo, sensualmente godiamo, spiritualmente riconosciamo, sentendoci intensamente grati.

Davanti alle tele di Van Gogh, salgono brividi spremuti dai colori, vivaci e gravidi di succo come frutti maturi. In questo modo il pittore ha rappresentato i propri sogni visionari: plasmandone la polpa rigonfia, aprendo il suggello delle proprie viscere e scendendo in fondo alla miniera, per trarne le gemme rilucenti. Ne ha provato il brivido ancestrale, trovando il dinamismo sinusoidale dell'anima che ha abolito ogni rigore figurale; tutto risulta in moto, nell'irrefrenabile mutazione della Vita, che uomini più pavidi hanno cercato inutilmente di raffrenare. L'artista, figlio di quel tempo, non ha potuto sostenere tutto questo nella propria personalità; conservava una rigidità dolente, poco meditativa, tuttavia non si è sottratto, sino ad esserne spezzato. Ma il suo coraggio d'avventuriero ha comunque reso la preghiera urlante della sua pittura ben più preziosa e più vera di ogni salmo, di ogni recitazione canonica.

Il dramma s'avverte maggiormente nelle visioni metropolitane di Van Gogh, teatro d'aspro confronto ed emarginazione; ma anche in queste il pittore ha calato un umore intimistico, profondamente umano e infuso di compassione. Pure la città moderna non ha potuto limitare la proliferazione dell'interiore, che è ascesa glorificandosi in notti stellate e turbinanti.

Riflettendosi nella Natura campestre, Van Gogh si è scoperto più orientale, trasfondendo il proprio amore per le stampe giapponesi. La sua esplorazione silvestre ha un'afflato non piattamente naturalistico, bensì animato da un soffuso senso di satori, la rivelazione zen che l'artista aveva inconsciamente respirato insieme all'Arte dell'Estremo Oriente.

In definitiva, la mostra del Vittoriano è un'occasione per aprire il cuore, partecipando alle visioni poderose di questo grande artista, patriarca involontario della coraggiosa individuazione dell'uomo e della Pittura.

Satvat per Valter Ambrosini

L'ARTE DELLA MEMORIA:

Una mostra particolare, questa di Valter Ambrosini, e coraggiosa. Viviamo in un mondo sempre più disumanizzato, tecnologico ed estraniato in una globalizzazione galoppante, di cui molta Arte Contemporanea è, purtroppo, lo specchio fedele, patendo così un'espropriazione d'anima. Invece questo artista ha orientato lo sguardo della sua pittura nel microcosmo esistenziale del proprio paese, Castelgiorgio, operando in tal modo una riconversione della stessa all'intima motivazione dell'Arte, che è quella di rivelare le radici misteriose di ciò che rimarrebbe solo prosaicamente visibile. Affinché ciò possa accadere, occorre recuperare il senso dell'intimità esistenziale, dell'esperienza quotidiana, farsi memoria per non dimenticare chi realmente siamo. Ed infatti uno dei grandi temi dell'Arte è quello del senso d'identità dell'essere umano, per cui possiamo riconoscere di non essere frammenti sperduti in un caos alieno, fondando piuttosto un senso d'integrazione.

Valter Ambrosini ha operato questa ricerca di memoria, che è anche ricordo del presente, nel territorio a lui più prossimo, rintracciando le iconografie esemplari e profondamente umane di personaggi che sono tutt'altro che personaggi, cioè non sono stereotipi ma esseri unici, osservati con affettiva partecipazione. Nulla è peggio dell'essere congelati in un personaggio, banalizzati con le malizie che i mass-media ci hanno insegnato, svuotati di profondità e contraddizioni. In modo ben più fecondo, i soggetti su cui l'autore ha lasciato posare l'occhio sensibile della Pittura non sono messi in fila, espropriati di se stessi; al contrario, sono colti in un'individualità che non è plastificata dall'artificio. La sensitiva partecipazione che il pittore ha saputo esercitare, scava sin nelle radici animiche dei sogni che a ciascuno di essi appartengono, mostrando come si possa essere eroi di se stessi, glorificati da una straordinaria ordinarietà che ci fa uguali a nessun altro, e non codificabili. Per questo ogni figura ritratta risulta “vera”, ed è stata pittoricamente immersa in una solitudine quasi lunare, che non la isola dal tutto, bensì intende far risplendere la preziosità dell'unico. Nel quadro del barbiere vi sono due persone che sono raddoppiate nello specchio, a significare l'importanza dell'atto sociale e quotidiano, in cui l'individualità diviene corale. Questo dipinto è in verità saturo di implicazioni, poiché ci mostra come ognuno possa fungere da specchio, e testimonia velatamente anche la “funzione di specchio” che la Pittura stessa deve saper esercitare; qualsiasi cosa l'artista giunga ad effigiare sulla tela, deve saper evocare in chi guarda un auto-riconoscimento segreto.

In questa mostra, che è dedicata alla memoria attualizzata ed attuale di Castelgiorgio, rincontriamo non solo i nostri vicini, dato che questa amplificazione d'umanità, che solo l'Arte può evocare, giunge a toccarci direttamente; pur riverberato dal singolo, il tema si allarga al senso collettivo che è storia vivente di un paese, ma inoltre esso è anche riflessione sul senso esistenziale dell'uomo in generale. Per questo motivo, il dipinto che raffigura le nozze dei genitori dell'artista è rigorosamente in bianco e nero, espediente che cristallizza l'evento in una a-storicità che è fuori dal tempo; così esso diviene un simbolo di genitura ancestrale e fondamento stesso della memoria, che rende comprensibile il presente e lo proietta in ogni possibile futuro. Nello stesso tempo esso è posto come nume tutelare che legittima organicamente l'intera mostra, annunciando che si ama, per cui si trasmette il patrimonio della vita, e così si forma il vivere collettivo, che dev'essere tutelato dalla reciprocità e dal rispetto. Emblematicamente, Valter Ambrosini ritrae se stesso intento a dipingere lo sposalizio dei genitori; egli vuol significare la profonda comprensione delle radici, di una memoria trasmissiva ed archetipica che in lui stesso si rende attuale, per cui egli può osservare con empatia il mondo che lo circonda, e quindi è reso capace di narrarlo con straordinaria efficacia.

lunedì 11 ottobre 2010

Satvat su Endre Rozsda

Endre Rozsda - Simbolo ermetico - 1974
Endre Rozsda, pur travagliato a lungo da una vita disperata, è riuscito a partecipare insieme ai grandi artisti del '900 alla rivoluzione dell'Arte Moderna. Egli ha attraversato il suicidio del padre, la più grave indigenza, la guerra, le purghe antisemite del nazismo, le censure dello stalinismo, la segregazione in Ungheria (il suo paese di nascita); nonostante tutto ciò ha mantenuto acceso il fuoco sprizzante della propria creatività, e proprio questo lo ha sospinto come viandante coraggioso e clandestino verso la libertà.. Attratto come una falena dal faro creativo che allora era a Parigi, varie volte è dovuto tornare sui suoi passi, ma senza scoraggiarsi ha continuato a forzare la mano ad un destino ingrato. Infine ha conquistato la vibrante libertà dell'Arte ed un'intima soddisfazione interiore, come mostra la sua opera straordinaria.

Nell'Arte egli ha sognato un mondo in cui poter camminare avanti e indietro sulla “dimensione del tempo”, ed infatti è andato al di là del proprio tempo, così come dovrebbe fare ogni artista. Infatti la dimensione temporale, così come l'esprit di un'epoca, è relativa ed illusoria, e l'artista dovrebbe impegnarsi nel ricercare e manifestare il sempre presente. Rozsda si sentiva “contemporaneo di avvenimenti antichissimi”, perché aveva raggiunto il mondo delle matrici, scomponendo la visione in infinitesimali frammenti per recuperare una visione non prosaica, ma esotericamente dilatata nell'intero. Contemplando la sua pittura mi emerge con insistenza il mito di Osiride: la Divinità smembrata nell'apparenza mondana dev'essere rigenerata investigandone e riconnettendone i frammenti. Per questo, come i grandi artisti, Rozsda ha cercato il battesimo del Caos, sforzandosi di creare "una superficie torbida sulla quale poter cominciare a cercare". Su questa ha scomposto le sue visioni nei più minuti dettagli, rintracciando, come in un puzzle, ciò che combaciava con lo Spirituale.

A mio parere la sua opera, rimasta piuttosto al margine delle grandi celebrazioni dell'Arte, è oggi più contemporanea di molte altre che attualmente infestano le gallerie, dato che risponde con mezzi ancora efficaci ad una bruciante domanda sullo Spirituale che l'Arte Contemporanea tende ad evitare. Ma io continuo a sognare che ogni artista approfondisca se stesso ed il proprio lavoro, sino a poter dire con Rozsda: "Illumino oggetti e uomini. Sveglio chi dorme, risveglio i morti".

Satvat su Mark Tobey

Mark Tobey - Red's passing - 1968
Parlando di Mark Tobey ho l'impressione di parlare di un intimo amico, tanto sono simili, alla radice, le nostre ricerche artistiche ed esistenziali. In qualche modo mi accorgo che le mie forme caleidoscopiche sono fiorite dallo stesso spazio pittorico che egli aveva meditativamente calligrafato. Seppure ciò può non essere evidente ad un primo sguardo, il fraseggio dell'anima in espansione è il medesimo, e scaturisce da simili comprensioni spirituali; per questo posso trovare nella sua pittura così tante risonanze e coincidenze, ad esempio con ciò che ho sperimentato nel tema di “universal web”.

La ricerca artistica di Mark Tobey è nata da un'esperienza spontanea di non-mente. Era il 1918 e si era appena sparsa la notizia della fine della 1 guerra mondiale; egli scese in strada e si unì alla folla festante. L'enfasi celebrativa e collettiva portò la sua consapevolezza ad un apice di congiunzione con il Tutto, facendo svanire i muri percettivi con i quali la mente definisce la ristrettezza dell'io. Per l'intero giorno egli rimase in uno stato di estatica immedesimazione con l'accadere, senza imporre i filtri estranianti della coscienza razionale. Fu uno stato di rapimento mistico, che egli si impegnò a resuscitare nel suo successivo lavoro di artista. Infatti egli intese l'Arte come possibilità d'espandere la consapevolezza, e per realizzarla frugò profondamente in se stesso, avviandosi anche su percorsi coraggiosi che lo condussero in Cina e Giappone, dove praticò la meditazione e l'arte pittorica del Taoismo e dello Zen. In Oriente non cercò però il sogno illusorio di un'alterità, ma la Via per divenire più autenticamente se stesso, e ne trasse un vibrante “impulso calligrafico”che celebrò con i suoi “white writings”. Paul Klee ebbe a dire che nella pittura di Tobey si assiste alla “genesi della scrittura”, ed infatti i suoi quadri sono arene dell'autocoscienza spirituale del segno.

Artista d'alto profilo, rimase tuttavia al margine della roboante pittura americana del periodo. Tobey era “bilanciato” e meditativo, ed affatto “american macho” (anche per la sua omosessualità socialmente disprezzata), ed inoltre il suo apprezzamento della cultura del “nemico giapponese” era ritenuta sospetta; tutto questo lo alienò per diverso tempo dalle simpatie della critica e del pubblico. Pur dopo i più alti riconoscimenti internazionali, egli è rimasto un po' appartato, vivamente apprezzato ma in circuiti amatoriali; basta vedere quanto poco si è pubblicato sul suo lavoro. Ciò nonostante ha ispirato molti, alcuni dei quali, come Pollock, l'hanno orgogliosamente negato. Il suo insegnamento rimane straordinariamente valido, soprattutto perché intende portare l'anima dell'artista fuori dalla prigione dolorosa dell'io, per danzare con le libere ed estatiche arie impersonali dell'Ispirazione; una profezia che l'Arte contemporanea ha assolutamente bisogno di verificare, per esserne spiritualmente rigenerata.

Satvat su Friedensreich Hundertwasser

Friedensreich Hundertwasser - Montagna domestica - 1993-94
Quand'ero ragazzo presi ad Amsterdam molte cartoline dei dipinti di Hunterwasser, con le quali tappezzai la mia stanza; fui attratto dall'immaginazione lisergica e spiraliforme di questo artista, ma di lui non sapevo nulla. Non sapevo, ad esempio, della sua filosofia e del suo impegno artistico-ecologista, delle sue intuizioni ante-litteram sulla bio-architettura, della sua coerenza nel mantenersi libero dalla logica materialistica e dai vincoli del mercato dell'Arte. Approfondendo nel tempo la sua conoscenza, lo ho apprezzato sempre di più, riscontrando anche molteplici corrispondenze con il mio percorso filosofico, artistico ed esistenziale.

Entrambi abbiamo cercato il senso della Vita e dell'Arte nel grembo della Natura quanto nel cuore del labirinto psichico dell'uomo. Infatti, come Hundertwasser, anch'io ne ho spontaneamente tratto colori massimamente vivaci e forme femminilmente tondeggianti, insieme ad un sentimento libertario che non accetta compromessi. Contemplando i suoi quadri, visitando le sue architetture e leggendo i suoi scritti, ne ho potuto apprezzare il valore, affatto sminuito dalla nota stonata di un certo fanatismo, che lo ha sostenuto nel mantenersi risolutamente coerente. Per farsi la propria strada, remando controcorrente, ci vuole un carattere forte, e una personalità tanto cristallizzata risulta inevitabilmente coriacea, a meno che non si risolva tuffandosi nel vortice impersonale della meditazione, fiorendo nell'innocenza. Forse per tentare di diluire la durezza del carattere, il pittore ha istintivamente prediletto i colori all'acqua, con cui ha tracciato spirali e labirinti sfumati, sempre ponendosi orizzontalmente in connessione con il grembo di Madre Terra. Comunque ciò che Hundertwasser ha espresso risulta di straordinaria attualità, e meriterebbe una riflessione ben più accurata di quanto gli sia concesso. Perché egli, come tutti i veri artisti, ha mostrato doti profetiche, soprattutto riguardo allo scempio che si stava perpetrando contro la Natura e contro l'uomo stesso, e che oggi ha raggiunto il punto critico.

Ci siamo ingabbiati in città verticalizzate che generano malattia, degrado ed alienazione, ed abbiamo corso lungo una linea dritta e tecnologica che ci ha forsennatamente distanziato dalle nostre radici naturali ed animiche, conducendoci al limitare del disastroso precipizio, proprio come Hundertwasser aveva sin da allora denunciato. Abbiamo confezionato le nostre “tre pelli” (che secondo l'artista sono la psiche, il corpo, lo spazio abitativo) come camicie di forza artificiali che ci stanno asfissiando. A tutto ciò Hundertwasser oppose giustamente una fiorente creatività, fondamentalmente semplice ma saggiamente “curva” e battezzata dai colori della speranza. Egli ha combattuto l'oscurità cercando di alimentare la luce, e credo che questo sia il giusto modo di operare.

Al contrario, spesso l'Arte contemporanea assomma oscurità su oscurità, elaborando una concettualità foscamente disperata, ammantata da impotente denuncia. Ma il potere dell'Arte si esprime nel comunicare creatività, riconoscimento della bellezza e ispirazione, mentre pescare mentalmente nel torbido certo non giova; l'artista che imbastisce il proprio lavoro sul dolente risentimento, sull'evidenza dell'ingiustizia e sulla catarsi sociale, manca l'autentica responsabilità creativa e contribuisce a mantenerci entro il recinto di filo spinato dell'angoscia. Forse questo è il più importante insegnamento che Hundertwasser ci ha lasciato: aveva individuato i mali che sarebbero incancreniti portandoci al punto in cui siamo, ed anche per questo ha insistito nel creare un'arte positiva, romantica, “bella come un gioiello” ed ecologista.

Satvat su Pablo Picasso

Pablo Picasso - Guernica
Picasso mi è cordialmente antipatico. Contemplando la sua opera non trovo alcuna vulnerabilità, alcun sussulto d'anima o di femminile trepidazione. Tuttavia Picasso è un genio, e non posso non amarlo; lo amo però come si può amare un padre ruvido che non sa aprirti il cuore, ma che a modo suo è profondo e abile, ricco di autorità e carattere.

A lui dobbiamo i precetti di una rivoluzione artistica, l'azzardo maschio di una nuova geometria, la sacra arroganza dell'ateismo formale, il “fare contro”, la propulsione sfrenata di un amplesso con l'informe. Con lui abbiamo rinunciato al sogno di essere artisti per imparare dolorosamente a disegnare come bambini, per vedere con occhi spalancati, a volte stralunati ma non del tutto privi d'innocenza. A lui dobbiamo le più folgoranti sentenze sull'Arte, tuttora affatto spente. Tutto ha provato e percorso; insaziabile argonauta, ha strappato il vello d'oro dal giardino sublime dell'Arte per farne robusti calzari con cui calcare l'impossibile. Ha prodotto l'opera di genio insieme a mediocrità e bruttura, il tutto cementato da una personalità eccessiva che ha saputo edificare un monumento imperituro.

E' stato lui il primo “assassino della Pittura”, ma ci ha lasciato in eredità mille quadri, mille schizzi brulicanti, mille icone di false divinità estranianti. In definitiva, con la sua pittura ha tentato di sfuggire laicamente alla morte, e devo dire che purtroppo vi è riuscito. Nel senso che superarlo, per procedere oltre, è stato drammaticamente difficile e per alcuni versi tuttora incerto.

Satvat su Richard Pousette-Dart

Richard Pousette-Dart - Uccello primordiale - 1944
Un giovane Richard Pousette-Dart sorride nella famosa foto degli Irascibili, gli artisti esplosivi della Scuola di New York. In effetti, pur se nella sua pittura ha esperienziato una gestualità libera, in qualche modo affine a quel Movimento, egli ha espresso una vivace riflessione alchemica e spirituale, che si è distanziata in altitudine dalla fermentazione puramente catartica dell'azione. La sua arte ha percorso territori selvaggi, in cui il segno si è sottoposto a rituali iniziatici nei vortici e nelle onde del mutamento, ed in cui il colore si è approfondito nella propria intrinseca saggezza, sino a divenire materia archetipica e pulsante. In tutto ciò, Richard Pousette-Dart ha conservato un eccezionale senso della misura, non declinato dal raziocinio bensì dalla spontaneità consapevole. Egli si è arditamente esteso in ogni direzione, ma mantenendosi connesso con il centro, con la radice della presenza meditativa. Per questo la strutturazione pittorica è spesso ripartita a croce, intersecando il piano orizzontale terrestre con quello verticale e celestiale. Per questo nella sua opera è così presente il cerchio simbolo dell'interno/esterno, simbolo del Tutto. E pure nel puntinismo cromatico che dilaga dalle sue tele più tarde, possiamo accorgerci che nessuno dei milioni di punti è casuale o distratto, ma intensamente e meticolosamente partecipato. Un tale controllo dell'opera è possibile solo all'Artista Interiore, che è pura testimonianza creativa della Vita stessa.

Nei lavori giovanili, già intuitivamente maturi, egli meditava con forme d'occhio (virtù della visione) e forme d'uccello (ascesi e liberazione). Egli esercitava onde ellittiche, come orbite cosmiche e diagrammi astrali, riflessi nel dipinto per evocare l'Unità spirituale del Sotto e del Sopra, recitando artisticamente la Tavola Smeraldina. Richard Pousette-Dart ha avuto meno notorietà dei suoi roboanti amici Irascibili, restando appartato nelle proprie meditazioni. Le vette insondabili e commuoventi della sua pittura sono affatto per la massa, ma per l'estimatore sensibile, per l'amante appassionato. Allora i suoi dipinti straordinari si rivelano vivi, pulsanti, capaci d'attrarci in un altrove, perfettamente presente, in cui ritroviamo la vibrazione estatica che permea ed unisce noi stessi ed il Tutto.

Satvat su Wassily Kandinsky

Wassily Kandinsky - Ovale bianco - 1919

Tornando da una passeggiata, Kandinsky fu sorpreso da un suo dipinto casualmente appeso sottosopra. Tale banalissimo evento lo trovò sveglio, trasformandosi in un agguato dello Spirituale che cambiò radicalmente ed universalmente la concezione della Pittura. L'artista percepì che, seppure il quadro capovolto non mostrava alcunché di riconoscibile, non risultava alieno bensì più "reale" di una visione ordinaria. Infatti, liberandosi da ogni descrittività iconografica, esso riusciva a testimoniare le consonanze misteriche dell'Anima. Sino ad allora, la Pittura si era ingegnata a raffigurare oggetti, ma Kandinsky, in quel momento di pura intuizione, comprese che l'oggetto nuoceva ai suoi quadri. Agli occhi del pittore, si apriva un universo artistico che era esotericamente costituito da essenze, manifestate da forme e colori, riscattando l'ovvietà di una pittura descrittiva di oggetti figurali.

Fu l'avvio, per Kandinsky e per ogni essere umano, di un'avventura artistica e percettiva d'immensa portata. Non più vincolata alla descrizione del già esistente, la Pittura si rendeva artefice devota della creazione spirituale, tanto profonda da culminare nell'astratto. Ma divenne anche chiaro che se l'artista è libero di percorrere il nuovo, al contempo deve rendersi intensamente responsabile di se stesso quanto della propria creazione. Infatti, per creare qualcosa di valido ed autentico, l'artista deve entrare meditativamente in se stesso, sino a convibrare con l'impulso creativo originario, che non è individualisticamente arbitrario bensì universale. Questo riconoscimento dello "Spirituale nell'Arte" è il grande contributo di Kandinsky, ed il corollario della sua preziosa intuizione (a tutt'oggi non veramente compresa) che l'opera è legittimata unicamente dalla sua "risonanza interiore", altrimenti rimane ottusa decorazione. Egli proseguì in tale ricerca con totalità, orientandosi con tutti i mezzi filosofici e ricognitivi che erano praticabili nel suo tempo, insieme all'intrinseca religiosità del suo. lavoro Le prime opere astratte (come "Primo acquerello astratto) risultano ardite ed ingovernabilmente fluttuanti, ma poi, per procedere da pioniere nello sconosciuto, Kandinsky ha dovuto adottare linguaggi più conformati, geometrici e traccianti. Con l'impegno distaccato dello scienziato, egli ha decantato le grammatiche della narrazione interiore. Di fonte all'insondabile Magia, ha profondamente osservato, preso appunti, tentato di decodificare l'inesprimibile, disegnando mappe dell'arcano paesaggio animico che sono si astratte, ma rigorosamente coerenti.

Certo non è stato mago o sciamano dell'Arte, piuttosto un sacerdote ispirato. Non si è gettato a capofitto nell'abisso, confidando in una rinascita al di là dell'io, però vi si è calato procedendo coraggiosamente passo dopo passo, assicurandosi alla corda della Ragione. Non ha bevuto al calice dell'Arte sino alla feccia, ma si è mantenuto sobrio per conservare il senso e la misura del viaggio. In quell'epoca si aprivano faticosamente sentieri totalmente nuovi, cercando d'orientarsi con la bussola dello Spirituale esoterico; non ci si poteva permettere di perdersi in vagabondaggi astrusi. Non era il momento della vertigine catartica, del caos creativo, della gestualità selvaggia. Tutto ciò sarebbe giunto dopo alcuni anni, scompigliando ciò che lo "Spirituale nell'Arte" di Kandinsky, e di altri, aveva edificato. Nell'evoluzione si procede per gradi, creando, distruggendo, e ricreando su un nuovo livello.

Tuttavia è visibile che qualcosa è andato storto, nell'essere umano e nell'Arte: lungo la via si è ceduto alle lusinghe del cinismo materialistico. Senza mantenere il riferimento alla risonanza interiore (unica costante davvero necessaria) e soffocata da un edonismo negativo, l'Arte si è smarrita in superficie. Nello stesso modo, rinnegando la dimensione spirituale, l'uomo si è reso orfano dell'Esistenza. Perciò, contemplando il panorama sconfortante dell'Arte contemporanea, ci troviamo a rimpiangere l'ispirata aristocrazia d'anima che ha reso impeccabili Kandinsky e la sua opera.

martedì 20 aprile 2010

Apertura al nuovo

L'arte della scrittura non è solo saper esporre i propri pensieri con proprietà di linguaggio; è qualcosa che è molto più sottile: ricevere e trasmettere la forza insondabile dell'Ispirazione. Non ci si limita ad esporre il conosciuto, bensì ci si apre al misterioso, al poter essere colti di sorpresa in modo da partecipare effettivamente ad un'opera di creazione. Lo scrittore è essenzialmente un ascoltatore che è capace di tradurre gli impulsi creativi che gli giungono da ogni dove, in modo intellegibile, evocativo, musicale; ecco, è un musicante delle parole, che accorda la propria anima e il proprio pensiero alle armonie esoteriche che attraversano l'Esistenza, in modo significativo ed espressivo. Lo scrittore è un medium creativo, e un esploratore che è capace di tracciare una rotta sulle mappe multidimensionali ed indecifrabili della Vita; può riuscirci non certo con la mente, ma poiché ha un cuore innamorato. In tal modo viene guidato in non sapere sui percorsi insondabili dell'Amore, che il suo cuore può rintracciare per pura empatia. Come ha scritto Le Clèzio, lo scrittore è un traduttore; a mio parere è soprattutto un traduttore del silenzio da cui giunge l'Ispirazione, un silenzio pullulante di Vita e di saggezza che è inesauribilmente intonato al nuovo. Un nuovo che è ancestrale, non soggetto alle limitazioni del tempo, e si dilata ineffabilmente nell'eterno presente.